ROCK PAINTING – PERCHE’ I QUADRI DI DYLAN E BOWIE, DUE GRANDI ARTISTI UNITI DALLA STESSA MANCANZA DI TALENTO PER LA PITTURA, DEVONO FINIRE NEI MUSEI? SOLO PER FREGARE I FANS GONZI? - DYLAN SI MATERIALIZZA A MILANO ALLA VERNICE DELLA SUA PRIMA ESPOSIZIONE IN ITALIA MENTRE IL V&A MUSEUM DI LONDRA SI PREPARA AD ACCOGLIERE L’ANTOLOGICA DI BOWIE (GIA’ SOLDOUT)…

1 - TRA I QUADRI DI BOB DYLAN APPARE IL MITO
Egle Santolini per "la Stampa"

Viene, non viene? Alla fine è arrivato, ma alla maggior parte dei presenti (e trepidanti) che ieri sera speravano di vedere Bob Dylan è toccato ricordarsi del titolo di quel film che parla di lui: «I'm Not There», e cioè prova a prendermi che intanto io sono già da un'altra parte.

L'ostensione del mito a Milano si è verificata ieri a Palazzo Reale verso le sette della sera, per l'inaugurazione della mostra dei suoi quadri. Zimmerman è apparso forse per un quarto d'ora, in giacca di pelle, cappello a larga tesa come quelli che indossa nei concerti, bastone con pomo d'argento battuto sul pavimento con una certo vigore. Tra i pochi ammessi alla sua presenza, dietro una tenda che pareva celare il sancta sanctorum, il sindaco Giuliano Pisapia, l'assessore alla Cultura Stefano Boeri, l'editore Carlo Feltrinelli, che ha pubblicato in Italia il suo libro «Chronicles Volume 1», con la madre Inge e il figlio adolescente.

Restano un paio di immagini ufficiali e un lampo di emozione, ma erano vietatissimi gli scatti col telefonino, lo scambio di battute, figurarsi le interviste.

Come sempre con Dylan e con la sua impenetrabile indisponibilità personale, meglio rifarsi alle opere. Anche quando dipinge invece di comporre o di cantare: e questa «New Orleans Series» in mostra a Milano fino al 10 marzo motivi di interesse ne mostra più d'uno. Ventidue dipinti a olio ambientati nel profondo del profondo Sud: nere incatenate, scene di morgue e di bordello, stazioni ferroviarie e sale da ballo, perfino una barberìa che pare far da sfondo a uno scannamento più che a una seduta di toilette maschile, e un bel po' di temi erotici: ispirati a foto in bianco e nero, spezzoni di film e di ricordi.

Un tono dark fin quasi alla loscaggine, un sensuale interesse nei confronti di corpi e volti. Sembra però che i quadri che più gli stanno a cuore siano quelli ospitati nelle ultime sale: vedute di piccoli cortili infiorati, mattoni rossi e cieli azzurri, che schizza durante i suoi tour senza fine e poi perfeziona a casa.

Ma è fondamentale che tutti i quadri esposti a Milano si riferiscano alla città del Delta e di Katrina, nel cuore di Dylan forse più di chiunque altra, e sempre più via via che passano gli anni: non a caso si esibisce in concerto con una nostalgica uniforme sudista. Quanto alla passione per la pittura, già percepibile in un vecchio pezzo intitolato «When I Paint My Masterpiece», dopo aver accompagnato Bob per buona parte della vita è diventata pubblica nel 1994 con un libro intitolato «Drawn Blank» e con la mostra che ne seguì nel 1997 a Chemnitz in Germania.

Bob Dylan ha poi esposto a Londra e in Danimarca, circondato dalla venerazione dei fan e dalle perplessità di chi lo considera nient'altro che un dilettante dal nome che ingombra. Spiazzante come al solito, lui dichiara di «dipingere quadri come qualcun altro cucirebbe vestiti: lo faccio per le persone».

La sera prima della vernice, quando è arrivato a Palazzo Reale per controllare spazi e luci, si è preoccupato soprattutto di che cosa avessero detto delle sue opere gli addetti all'allestimento «perché dei critici non m'importa molto». Si è assicurato poi che il biglietto fosse gratuito (scrupolo che non lo attanaglia per quanto riguarda i concerti) e ha ammirato i saloni che accolgono i suoi quadri. Quando si è trattato di andar via, ha preferito non usare l'ascensore: il genio non lo immunizza dalla claustrofobia.

Due ragazzine l'hanno riconosciuto, ma la guardia del corpo, cintura nera di karate, ha preferito che non lo fotografassero. Poi via, verso una misteriosa residenza sul Lago di Como. È stato qui, o forse no.

2 - BONAMI: "L'HA COMMOSSO CONQUISTARE DA ARTISTA IL NOSTRO PALAZZO REALE"
Egle Santolini per "la Stampa"

Francesco Bonami, curatore della mostra milanese di Bob Dylan, ha trascorso con lui i minuti che l'artista ha dedicato all'inaugurazione: «Pochi ma eccezionali - fa notare Bonami - non mi risulta che Dylan abbia mai partecipato a un vernissage in vita sua».

Che cosa le ha detto? Ha visto il Duomo, che è a pochi passi da Palazzo Reale?
«Se l'ha fatto non me ne ha parlato. Mi ha detto invece che considerava un grande onore essere ospitato dal Palazzo Reale. Lo spazio concesso ai suoi dipinti gli è piaciuto moltissimo e si è dichiarato addirittura commosso per essere entrato in un luogo storico così affascinante. Milano, ha aggiunto, è una città che gli piace molto».

Che cosa l'ha interessata nella pittura di Bob Dylan?
«Ho visto i suoi quadri da Gagosian a New York e mi hanno colpito per il tono dark, quasi scespiriano. E anche come provocazione nei riguardi di certa pittura contemporanea. Artisti come Marlene Dumas e Luc Tuymans sono esaltati dalla critica e non dipingono in modo più significativo. Ma lui è Bob Dylan, un monumento culturale di per sé».

Da quali artisti le pare che sia stato ispirato?
«È quello il suo bello: è completamente fuori da ogni influenza, ha un fascino naïf. E ha seguito corsi di pittura solo per formarsi una tecnica».

Come trova il tempo per l'arte?
«Durante i tour fa molti disegni, girando per le città toccate dai concerti. Poi, nella sua casa di Los Angeles, realizza i quadri da quegli schizzi. Credo che abbia necessità di dedicarsi a una manualità creativa».

Le risulta che a Milano abbia visitato Brera o il Cenacolo?
«Sta attentissimo a non dare indicazioni. Ma credo che non molto tempo fa, a Roma, sia andato alla Galleria Borghese e in caccia di Bernini e Caravaggio».

Che cosa cerca di ottenere dall'attività artistica?
«Dylan è al di là del mito. Gradirebbe essere considerato un buon pittore perché lo fa con passione, ma non smania per il riconoscimento critico».

 


3- DYLAN E BOWIE NON SANNO DIPINGERE
Vincenzo Trione per "La Lettura - il Corriere della Sera"

Perché importanti sedi espositive pubbliche accettano di farsi contaminare da esperienze «estetiche» come design, moda, musica? Forse, è il segno di un'epoca nella quale si è compiuto, per dirla con Steiner, il drammatico passaggio dall'autorità alla celebrità. Ma, forse, è anche sintomo di un tempo nel quale i musei tendono a diventare simili a mall caotici, gestiti senza criterio critico: non luoghi di approfondimento e studio, ma spazi di intrattenimento, condannati a profanazioni sistematiche. Due recenti episodi.

Milano, Palazzo Reale. Martedì 5 febbraio verrà inaugurata la prima personale italiana di Bob Dylan (a cura di Francesco Bonami). In mostra, «The New Orleans Series». Un ciclo di 22 dipinti recenti. Vi appare una New Orleans avvolta in un polveroso splendore. Una decadente eleganza, che rimanda ai noir degli anni 40 e 50. Quadri che ritraggono gruppi di persone o singoli individui, appesantiti da campiture piatte e da tonalità cupe. Si respira un'atmosfera tragica.

Londra, Victoria and Albert Museum. Il 23 marzo è fissata l'apertura dell'antologica di David Bowie. Testi autografi, art work originali delle copertine dei dischi, costumi e scenografie, videoclip, film e foto. E molti oggetti cult: come l'abito spaziale di Ziggy Sturdust. Ma perché Palazzo Reale e il V&A scelgono di nobilitare i «giochi» di Dylan e Bowie? Semplice: proprio perché celebrity. Vicende a confronto.

Dylan. È tra le personalità più versatili della storia del rock. Poeta, romanziere (Tarantula), scrittore di memorie (Chronicles), intellettuale impegnato, attore (Pat Garrett & Billy The Kid), regista (Renaldo & Clara), protagonista di documentari (No Direction Home di Scorsese), ispiratore di film (Io non sono qui di Haynes), in diverse occasioni ha dichiarato di sentirsi più a suo agio dinanzi a una tela che a una pagina bianca. In maniera inattesa, ha detto di preferire il dipingere allo scrivere e al cantare canzoni.

Addirittura Dylan pensa se stesso innanzitutto come pittore. Supervisiona sempre la grafica delle copertine dei suoi album, concepite da maestri della fotografia. Ma la vera svolta risale al 1966. Vittima di un incidente motociclistico, costretto all'immobilità, l'autore di «Blowin' in the Wind» scopre il mistero dei colori. Frequenta le lezioni di Norman Roeben, che gli insegna alcune tecniche e gli fa conoscere l'arte del XX secolo. Da allora in poi, decide di evitare tour troppo lunghi. Registra di meno. «Voglio solo dipingere», confessa. Nel 1968, riecheggiando Chagall, realizza la copertina in rosa dell'album «Music from Big Pink» del gruppo The Hawks.

Nel 1970, cura in prima persona la cover di un suo disco, «Self Portrait», duramente stroncata. Dagli anni 70, dedica ogni momento libero alla sua «vocazione». Disegna in modo quasi compulsivo. Lo fa un po' ovunque: durante i tour, nelle stanze degli alberghi. Il suo mito è Picasso: «Aveva disintegrato il mondo (...). Era un rivoluzionario. Era così che volevo essere io». L'artista che lo influenza maggiormente è Ben Shahn. Non mancano le fascinazioni simboliste ed espressioniste. Suggestioni eterogenee che si ritrovano in «Drawn Blank» (a Chemnitz, 2007); in «The Brazil» (a Copenaghen, 2010); e in «The New Orleans» (ora a Palazzo Reale).

Bowie. È il 1960 quando il Duca Bianco comincia a seguire i corsi di Owen Frampton, alla Bromley Technical School. Intenso il suo dialogo con gli artisti: sulle copertine dei suoi album riproduce opere di Vasarely, di Peellaert, di Boshier. Inoltre, guardando a body artist come Lüthi e Ontani, trasforma i suoi show in coinvolgenti performance, segnate da continui travestimenti.

Talent scout, collezionista (degli young British artists), editorialista, critico e intervistatore (per la rivista «Modern Painters»), si sente egli stesso un artista visivo. La sua consacrazione si ha nel 1996, quand'è invitato alla Biennale di Firenze. Polemico nei confronti delle logiche del mercato, gestisce un sito (bowieart.com) dove pubblica e vende le sue serigrafie e sculture.

Alcune affinità sono evidenti. Siamo di fronte a due figure da sempre sorrette da una spiccata sensibilità artistica. Che, a un certo punto della carriera, hanno avvertito quasi una stanchezza creativa, e si sono spinte verso territori inesplorati. La loro sfida: coniugare il loro mestiere con una loro passione segreta. Due naïf, dunque. Separati da tante differenze. Dylan è un pittore quasi del tutto privo di talento.

I suoi quadri appaiono accademici, scolastici, dilettanteschi, ingenui, senza originalità, fondati sulla riproposizione di stilemi ampiamente conosciuti, distanti dalle «scandalose» canzoni degli anni 60, nelle quali si incontravano tensione politica, vocalità roca e sonorità essenziali. Il caso-Bowie è più complesso. Siamo al cospetto di un vero avanguardista. Una sorta di Picasso del rock che, nel suo itinerario, ha cambiato mille identità. Pur privo di abilità pittorica, egli è un inconsapevole erede dello sperimentalismo novecentesco. Ha la capacità di «ri-locare» le intuizioni di Dalí, di Warhol e di Lüthi in scenari postmoderni. In lui, c'è il performer, il situazionista, il body, il pop, l'artista fluxus. E lo showman.

Nonostante queste differenze, la strategia cui si affidano Dylan e Bowie è la medesima. In una prima fase, restando nel loro specifico musicale, si aprono a contaminazioni e a collaborazioni. Commettono l'errore, però, di ritenere che, per essere artisti autentici, occorra dipingere. Scelgono, perciò, di misurarsi con la pittura. Che considerano un diversivo. Uno strumento di legittimazione culturale. Infine, un divertissement. Non da esercitare privatamente ma da esibire in pubblico. E da imporre nei musei, in virtù di un consenso ottenuto per altre qualità.

Di questi equivoci si è fatto lucido interprete Damien Hirst. Spesso, negli anni 90, gli fa visita nel suo atelier londinese Bowie. Che, un giorno, gli svela il suo sogno: realizzare uno spin painting a quattro mani. La replica: sprezzante. Hirst suggerisce a Ziggy Stardust - che indossa sempre abiti bianchi Gucci - di stare attento a non sporcarsi. Poi, dirà: «Bowie sta cercando di catturare la forza dell'arte per sfruttarla nel suo lavoro. Vuol trasformare il musicista Bowie nell'artista Bowie. Che però fa schifo»

 

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