SOCIAL HATE-WORK: GLI INTELLETTUALI FUORI DAL MONDO CHE ODIANO TWITTER E FACEBOOK

Vittorio Zucconi per "La Repubblica"

Era l'anno 1943 quando il presidente e creatore della moderna IBM, il leggendario Thomas Watson, spiegò a una riunione di azionisti che «nel mondo ci sarà un mercato per quattro o cinque computer al massimo».

Se settant'anni più tardi la profezia del padre della IBM appare lievemente errata per difetto, ora che il numero di computer per uso personale ha superato i due miliardi, e senza contare gli smartphone e i tablet, Thomas Watson non potrà essere almeno accusato di "tecnofobia", o della sua gemella, la "neofobia", quel terrore superstizioso della tecnologia e della novità che oggi sembra colpire scrittori, docenti, esperti e intellettuali.

Watson non aveva visto il futuro di una tecnologia che avrebbe trasformato i pachidermi da tre tonnellate che negli anni Quaranta erano i computer, in gingilli tascabili o da polso. Gli intellettuali e gli scrittori disperati di fronte all'impero della Rete e all'invadenza robotica dei social network, come Franzen, come Pynchon, come Wolfe, come Morozov, sembrano appartenere a una cabala di "neo luddisti", di nemici dei telai meccanici che minacciano la loro esistenza, ma per la ragione opposta: per avere semmai visto troppo lontano nella Matrix del World Wide Web. Dove hanno letto l'ineffabile banalità, e la dispotica stupidità, della «intelligenza collettiva».

L'idiosincrasia, o la fobia, verso il nuovo, il mai visto prima, l'ignoto, è certamente antica come lo sbigottimento del nostro antenato di fronte al primo cespuglio in fiamme o del monaco amanuense terrorizzato da quelle presse capaci di riprodurre in pochi giorni quei sacri testi che a lui richiedevano anni.

Ma nell'avversione di intellettuali come l'autore di
Libertà, Jonathan Franzen, come il Thomas Pynchon dell'ultimo Bleeding Edge, il filo di lama sanguinante, il Wolfe dei falò di tutte le vanità umane, tecno o sociali che siano, o del fustigatore instancabile del WWW, il russo Evgeny Morozov in lotta contro la Follia del soluzionismo tecnologico, c'è un filo comune che tesse personalità tanto diverse.

Il filo che li unisce e che sicuramente potrebbe legare anche il Salinger del Giovane Holden nella sua feroce autoreclusione, è la antica paranoia dello sciamano. È l'ansia del
medicine man, del santone che vede sfuggirgli il controllo dell'immaginazione collettiva della tribù di fronte ad anonimi infermieri e medici armati di endofoni, vaccini, antibiotici e analgesici.

Ciascuno di loro e altri ancora teorizzano il proprio disgusto per cinguettii, faccette, emoticon, pollicioni eretti o versi, blog, linkedin e tutta la farmacopea della «falsa socializzazione» come la chiama Franzen, sotto profili diversi. Wolfe per snobismo di antico amanuense della carta e adoratore ironico del giornalismo, offeso dalla superficialità istantanea e manipolabile della cosiddetta informazione in Rete, capace di produrre più danni e menzogne di quanti non riesca a rimediare.

Pynchon, il monaco fintamente savonaroliano che vive nella Upper West Side di Manhattan e manda i figli in esclusive scuole private, legge anche nel web l'ennesima manifestazione del complotto universale e metamorfico, del potere, immaginando una «Rete sotto la Rete» dove nascondere la resistenza, comunque destinata a soccombere.

Invano Salman Rushdie, che invece twitta allegramente, se ne vanta e ne gode, li sbeffeggia proprio attraverso Twitter e i critici li accusano naturalmente di luddismo, di passatismo, di semplice incapacità di adeguarsi al tempo, non diversi dal titano di Hollywood, Darryl Zanuck, che licenziò il primo televisore visto all'Esposizione Universale di New York nel 1939 come «una scatola di legno compensato che nessun americano avrà il tempo e la voglia di fissare a lungo».

L'angoscia di questi magnifici alchimisti della parola, che hanno consumato la vita, gli occhi, il cuore per trasformare pensieri e sentimenti in lunghe pagine, messi a confronto con la «stupida spensieratezza» (ancora Franzen) di pensierini elementari sparati a decine di migliaia di follower e scambiati come perline senza valore, è vedere come essi stiano perdendo il controllo del discorso collettivo. E come meccanismi senza cervello stiano sottraendo loro il potere fondamentale per ogni intellettuale. Il potere della mediazione.

Naturalmente, come osserva un "tecnofilo" e giulivo adepto alla socializzazione virtuale, Michael Jarvis autore di un peana alla Rete, in questo rifiuto, in questa avversione ritrosa, si insinua quel sospetto che Nanni Moretti sintetizzò cosi efficacemente nel celebre «mi si nota di più se ci vado o se non ci vado». La mistica dei Salinger o dei Pynchon, degli eremiti della parola, si esalta proprio nel loro rifiuto del pubblico, nella esclusività della loro persona, se non dell'opera, che nel caso di Pynchon è ricca e abbondante.

Contestando la nuova, effimera divinità creata dagli Zuckerberg, dai Dorsey, creatore di Twitter, dai Systrom e Krieger di Instagram, si costruiscono un cachet di esclusività, un tempietto di diversità che impreziosisce il loro lavoro. Franzen, che aborre la volgarità, nel senso etimologico e poi linguistico dei social network, non disdegna affatto l'altro medium che intellettuali di qualche decennio or sono maledivano con altrettanto orrore: la televisione.

Eppure, anche sapendo che la dinamica creata dalla Rete non potrà mai più essere fermata né invertita, non essendo mai possibile "disinventare" qualcosa o richiamare indietro il suono di una campana, non si possono licenziare le loro preoccupazioni soltanto come la stizza dell'intellettuale individualista che si deve misurare con la stoltezza fragorosa della "intelligenza collettiva".

Nella cupa visione di Pynchon, di tutti loro il più sconvolto dall'impero della Rete e dalla "googolizzazione" del mondo come lo fu Mary Shelley davanti al possibile Frankenstein o Fritz Lang nell'incubo della Metropolis moderna, c'è la denuncia di quell'inganno che gli interessati sacerdoti della nuova religione, anche i più ruspanti come il nostro Casaleggio, tendono a rovesciare.

C'è il sospetto che la apparente libertà espressiva del World Wide Web sia soltanto la manifestazione di una nuova forma di controllo, di divisione e di sfruttamento, nell'apparenza dell'universalizzazione. Già Marshall McLuhan avvertiva, a proposito della televisione e ancor più potrebbe dire della Rete: «La Tv avrà come effetto non la coesione, ma la tribalizzazione della società». Un mondo di tribù vaganti e salmodianti, senza sciamani.

 

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