DESTINO “BLUES” - LA STORIA DI ROBERTO DI MATTEO È LA FAVOLA DI UN UOMO CHE, DA CALCIATORE, HA DOVUTO CHIUDERE LA CARRIERA PERCHÉ RISCHIAVA L’AMPUTAZIONE DELLA GAMBA E ORA, DA ALLENATORE AD INTERIM, RISCHIA DI VINCERE LA CHAMPIONS CON IL CHELSEA (MISSIONE FALLITA SIA DA MOURINHO CHE DA ANCELOTTI) - LA STAMPA BRITANNICA TIFA PER LUI E NE CHIEDE LA CONFERMA ALLO ZAR ABRAMOVICH ANCHE IN CASO DI SCONFITTA COL BAYERN: “HA RESUSCITATO UNA SQUADRA, COSA DEVE FARE DI PIÙ?”…

Emilio Marrese per "l'Espresso"

C'è un governo tecnico italiano che sta conquistando l'Europa, ma sempre gli toccherà vedersela coi tedeschi. Roberto Di Matteo sarà il primo allenatore italiano a guidare dalla panchina una squadra straniera (il Chelsea) in una finale di Champions League: impresa mai riuscita a gente come Capello, Trapattoni o Ancelotti, per dire, al cui confronto il curriculum di Di Matteo è un sms. La vicenda surreale ricorda quella di Chance Giardiniere in "Oltre il giardino": un impareggiabile Peter Sellers che, ingenuo analfabeta, viene spacciato a sua insaputa per un genio della strategia politica e si ritrova candidato alla presidenza degli Usa.

Col solo merito di essere passato di lì e la semplicità come unica arma, l'emigrato precario del pallone Di Matteo irrompe direttamente nella scena finale, cominciando la sua carriera di allenatore dal vertice della piramide, quello che i più inseguono e non raggiungono neanche dopo una vita: Bayern-Chelsea sabato 19 maggio all'Allianz Arena di Monaco di Baviera. Ma solo regalando la prima coppa con le orecchie della storia al suo club, il coach "ad interim" otterrà il rinnovo del contratto.

Il destino ha una fantasia pazzesca e su questo ragazzo di 42 anni, scaltro quanto pudico, si sta divertendo un mondo da tempo, manco fosse uno yo-yo. Dieci anni fa, ad esempio, Di Matteo era un ex calciatore caduto in depressione dopo una traumatica fine di carriera: un incidente di gioco, la gamba che si spezza in tre punti, dieci interventi chirurgici, il rischio di vedersela amputata e infine la resa.

Il catenaccio del Chelsea è la cosa più italiana nel bagaglio genetico di Di Matteo, che qui da noi in realtà ha solo vissuto tre anni dal '93 al '96. È nato a Schaffausen, in un angolino lassù di Svizzera tedesca, dove i genitori erano emigrati in cerca di lavoro da un paesino abruzzese chiamato Paglieta in provincia di Chieti.

A 23 anni vinse il campionato svizzero con l'Aarau ma da straniero, rifiutando anche le nazionali elvetiche per conservare il passaporto italiano anche calcistico. Vide giusto: quando Sacchi lo convocò in azzurro dichiarò: "Sarei rimasto italiano anche solo per lavorare in fabbrica" in un furbo impeto di retorica paisà. Una delle pochissime frasi memorabili di una carriera senza mai una polemica, uno slogan, un concetto qualsiasi da titolo: solo sorrisi e sguardi levantini.

Ai Mondiali del '94 in Usa però non poté andare a causa di una frattura al gomito verso la fine del suo primo campionato in Italia dei tre con la Lazio, dal '93 al '96, prima con Zoff e poi con Zeman. La sua prima partita in biancoazzurro la giocò entrando al posto di Gascoigne, l'Inghilterra nel destino. Nato difensore, era riuscito a imporsi come mediano di regia moderno in un calcio che stava cambiando, chiedendo ai centrocampisti lotta e governo, più muscoli che idee.

Nel '96, dopo lo sfortunato Europeo in Inghilterra (ancora) dell'Italia di Sacchi, fu venduto per 8 milioni di euro al Chelsea, non ancora russo, del quale divenne una bandiera sgobbona e silenziosa, italiano atipico nella squadra di Gullit e Vialli. Vinse da protagonista la Coppa delle Coppe del '98 (gol di Zola con Vialli allenatore), ma soprattutto segnò due reti decisive nelle due finali conquistate di Coppa d'Inghilterra a Wembley, nel '97 al Middlesbrough e nel 2000 all'Aston Villa.

Poi l'incidente - quando aveva già lasciato la Nazionale dopo 34 partite in 4 anni - proprio contro una squadra svizzera, il San Gallo, nel settembre 2000 e il successivo calvario molto probabilmente dovuto ad un errore del chirurgo, l'ex portiere della nazionale svizzera Berbig che, evidentemente, non aveva mani prodigiose per tutto.

A 32 anni la vita senza calcio lo infilzò in contropiede, come ha appena fatto la sua squadra col Barcellona. "Ero un atleta e all'improvviso rischiavo di restare menomato per tutta l'esistenza", ha raccontato alla "Gazzetta dello sport", "ora mi resta solo un brutto ricordo che mi ha insegnato ad affrontare la vita ad un certo modo". Anni bui e un vuoto da riempire con lo studio (corso in business e management), i commenti annoiati per la tv svizzera e gli affari: due ristoranti a Londra (Friends a Chelsea e il Baraonda vicino Piccadilly) e investimenti in Thailandia.

Il pallone torna nella sua vita nel 2008: c'è da allenare la squadretta di Milton Keynes, campagna industriale senza cuore né anima a nord della capitale, nota soprattutto per essere la sede della scuderia di Formula Uno Red Bull e non certo per i Dons che Di Matteo guida in terza divisione. L'anno dopo riesce a promuovere il West Bromwich Albion in Premier League ma viene esonerato nel successivo inverno e si ritrova di nuovo a spasso finché il Chelsea non lo richiama come vice del portoghese André Villas Boas, giovane guru costato ad Abramovich una barca di milioni nell'illusione di aver trovato il clone di Mourinho.

Ma il Chelsea è una squadra di vecchi leoni spelacchiati che non ha più voglia di fare le acrobazie pretese dal piccolo chimico in panchina: non sono più giocatori da plasmare o resettare come un'applicazione dello smartphone e, alla fine, chi viene scaricato dal gruppo è il 35enne Special Two. I senatori gli tolgono la fiducia, la banda gli gioca contro. Ma Di Matteo nega di aver soffiato sul fuoco dell'ammutinamento: "Non ho segato la panchina a Villas Boas. Con lui era nata una vera amicizia".

Sta di fatto che la stagione sembra perduta, lo zar licenzia il maghetto e affida quel che resta a Di Matteo, come farebbe col parcheggiatore di un resort a sette stelle: portami la Rolls in garage senza graffiarla. E quello, invece, parte a razzo e comincia a vincere di tutto, dai rally ai gran premi. Come fai a chiedergli indietro le chiavi? "Cosa deve fare di più?" titolava il Mirror, riferendosi alla conferma di Di Matteo sulla panchina del Chelsea. Perché da quando c'è lui al comando, giorno 4 marzo, i senatori - per dimostrare che la congiura aveva un senso - si sono messi a giocare e la squadra a vincere in tutte le competizioni, raggiungendo anche un'altra finale, quella di Coppa d'Inghilterra (lassù molto più importante della nostra analoga competizione) il 5 maggio contro il Liverpool.

Ma il capolavoro a sorpresa l'ha confezionato in Champions. Eliminate Napoli e Benfica, l'italian job di Di Matteo ha fatto la vittima più impensabile e illustre di tutte: il Barcellona, considerato la squadra più forte del mondo. Ce l'ha fatta con la tattica dei deboli, l'unica possibile: tutti in difesa e fiondate di contropiede (e fortuna) nell'occhio del gigante. Brevetto Rocco. "Non sono difensivista: è che, semplicemente, non mi piace prendere gol. Non c'era altro modo per affrontare il Barcellona". Il resto è solo buon senso.

Saper parlare ai giocatori, ricreare il famoso spirito di gruppo, fondamentalmente presentarsi nello spogliatoio come il tecnico della caldaia: i padroni di casa siete voi, io son solo di passaggio per darvi una mano. "Dovevo ridare fiducia a un gruppo di giocatori spaesati".

E c'è riuscito ricevendo in cambio la benedizione della vecchia guardia, da Lampard a Terry e Drogba, che ora ne sponsorizzano la riconferma, mettendo in imbarazzo il magnate Abramovich che già aveva la lista dei successori possibili (Deschamps, Loew, Klopp o Blanc). E da buon oligarca non riesce nemmeno a contemplare la possibilità che si possa ottenere la cosa migliore senza staccare assegni disumani.

 

 

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