giorgia meloni donald trump

“UN TEMPO ERA IL LATINORUM DI DON ABBONDIO, ORA È L’INGLESE DELLA MELONI L’EMBLEMA DEL PROVINCIALISMO NAZIONALE” – PAOLO LANDI: “C’È, NELL’ENTUSIASMO PER L’INGLESE DELLA PREMIER SFOGGIATO ALLA CASA BIANCA, LO STESSO RIFLESSO ANTICO DELL’ATTEGGIAMENTO CHE GLI ITALIANI HANNO SEMPRE AVUTO VERSO LA CULTURA: CONSIDERARE IMPORTANTE SOLTANTO CIÒ CHE NON SI CAPISCE. MENTRE CI ESALTIAMO PER IL SUO INGLESE, DIMENTICHIAMO CHE IN ITALIANO, LA SUA LINGUA MADRE, NON LA SI PUÒ SENTIRE: CON QUEL DIALETTO ROMANESCO CHE LE ESCE BRUTALE, CON QUELLE INFLESSIONI DA BORGATA CHE TRASFORMANO OGNI DISCORSO UFFICIALE IN UNA CHIACCHIERATA DA BAR DELLA GARBATELLA. QUANDO ERA MARIO DRAGHI A SPIEGARSI IN PERFETTO INGLESE NESSUNO SI STUPIVA…” – VIDEO

 

Paolo Landi per Dagospia

 

la risata di giorgia meloni davanti a donald trump 2

C’è, nell’entusiasmo per l’inglese della Meloni, lo stesso riflesso antico dell’atteggiamento che gli italiani hanno sempre avuto verso la cultura: considerare importante soltanto ciò che non si capisce. Il mistero linguistico che avvolge, pare, un italiano su due, trasforma l’ordinario in epico.

 

Basta vedere i commenti su un video che gira su TikTok, dove la presidente del Consiglio rivolge a Donald Trump banali convenevoli: un’esplosione di entusiasmo, con pochissime, timide, eccezioni ("Ora questa diventa credibile perché parla inglese", scrive una, subito zittita da altri venti).

 

Un tempo era il latinorum di Don Abbondio, ora è l’inglese della Meloni l’emblema del provincialismo nazionale che sgrana gli occhi davanti all’esotico.

 

DONALD TRUMP GIORGIA MELONI - MEME BY VUKIC

Mentre ci esaltiamo per il suo inglese, dimentichiamo che in italiano, la sua lingua madre, non la si può sentire: con quel dialetto romanesco che le esce brutale, con quelle inflessioni da borgata che trasformano ogni discorso ufficiale in una chiacchierata da bar della Garbatella.

 

Se a questo si aggiunge la tendenza a dire ovvietà - come accade nei comizi, quando con l’enfasi retorica cerca di coprire la povertà dei contenuti - si capisce come mai il passaggio all’inglese susciti tanto stupore: non tanto per la sua pronuncia, quanto perché per un attimo non ci sembra lei.

 

Quando era Mario Draghi a spiegarsi in perfetto inglese - con quell’aplomb da seminario a Princeton - nessuno si stupiva. Ci si limitava a prenderne atto: era normale che lo parlasse, come ci si aspetta che un pilota sappia far atterrare un aereo.

 

La Meloni invece scalda la platea perché da una che inciampa nell’italiano, che sforna slogan più vicini alla piazza del mercato che a Palazzo Chigi, non ci si aspetta questa abilità, che Giorgia ha affinato nei cinque anni di frequentazione dell’Istituto Alberghiero.

 

 

la risata di giorgia meloni davanti a donald trump 7

La differenza con l'inglese di Matteo Renzi sta tutta qui: lui dice in italiano cose politicamente sensate, o almeno articolate, perché ha fatto uno dei migliori licei classici di Firenze - ma lo ha fatto in un periodo in cui l’inglese, se si faceva, era solo al ginnasio, nei primi due anni - e l'Università.

 

La Meloni studiava per ricevere i turisti al desk di un hotel. Così la Meloni lo batte certamente "in kissing Trump's ass" ma non gli lega nemmeno le scarpe quando Renzi la inchioda con uno dei suoi discorsi a braccio, in Senato: è l'unico che fa opposizione e che la infastidisce davvero.

 

A proposito di Trump: il ciuffo biondo che fa impazzire il mondo, come lo chiamano sui social, si esprime a fatica, come è noto, in 140 caratteri, quelli che gli servono per twittare a notte fonda. Parlare con lui in inglese è un po’ come vantarsi di aver discusso di filosofia tedesca con Heidegger, avendo scambiato la ricetta della carbonara con il vicino di pianerottolo.

 

LE FACCETTE DI GIORGIA MELONI DURANTE IL VERTICE CON DONALD TRUMP

Il recente fuorionda in cui la Meloni confida a Trump di non parlare mai con la stampa italiana, vantandosene, aggiunge ridicolo a questo spettacolo linguistico. Non è solo un momento imbarazzante: è il disprezzo di una leader verso una funzione importante della democrazia, il confronto pubblico e il diritto dei cittadini a essere informati.

 

In quelle parole, pronunciate da una che sembra contro l'Istituzione che rappresenta, si percepisce una distanza ingenua tra il potere e la responsabilità, un’affermazione che suona come il chiaro rifiuto del dialogo con il Paese, soprattutto con quella parte che non l'ha votata.

 

Così, da un lato, abbiamo una premier che, in italiano, ci molesta con le sue formulette da sacrestia politica; dall’altro, la stessa premier che, in inglese, si presenta come leader globale, usando la lingua della finanza e della tecnologia, della NATO e delle multinazionali, la lingua di un sistema che ha sempre detestato con tutta sé stessa.

 

È il cortocircuito tra l’evocazione sacrale di un mondo perduto, quello a cui la Meloni è affezionata, e il linguaggio pragmatico del presente a cui deve trasformisticamente adattarsi. Da questo scarto, inevitabilmente, nasce il comico.

 

GIORGIA MELONI E DONALD TRUMP

In Italia se un premier parla inglese è una notizia, se lo parla bene si trasforma in un evento epocale, e se lo parla con un accento minimamente dignitoso è un miracolo. Ora la Meloni deve digerire l'ennesima figuraccia di un suo ministro, Urso, che in tv ha tradotto "factory" con "fattoria". Parè sia furiosa, questa le brucia più di tutte.

MEME SU DONALD TRUMP E GIORGIA MELONI BY EMILIANO CARLI

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