BUFERA GOOGLE TAX – E’ IL POMO DELLA DISCORDIA NEL PD: BOCCIA L’HA IDEATA, RENZI L’HA DEFINITA “NUVOLA NERA DI FANTOZZI” – CHI HA RAGIONE?

Alessandro Gilioli per "l'Espresso"

L'hanno chiamata Google Tax ed è l'ultimo oggetto di litigio a sinistra. A proporla (e a farla approvare in commissione, come emendamento alla legge di Stabilità) è stato infatti un giovane deputato renziano, Edoardo Fanucci, con l'appoggio del suo partito e di Sel, sotto la guida del piddino Francesco Boccia.

Nella sua versione originale prevedeva l'obbligo di aprire una partita Iva italiana per tutte le aziende che vendono qualsiasi cosa on line nel nostro Paese, compresi i beni fisici; nel testo modificato in fretta e furia durante la notte tra martedì 17 e mercoledì 18, l'imposizione è stata eliminata per l'e-commerce ma è rimasta per la vendita di spazi pubblicitari e di link sponsorizzati (tipo quelli su Google, appunto, o su Facebook).

Alla base c'è un problema reale: le aziende straniere che vendono prodotti e servizi via Internet in Italia, infatti, al momento pagano pochissime imposte nel nostro Paese. Ne preferiscono altri con trattamenti più convenienti, all'interno della stessa Ue: l'Irlanda per Facebook e Google, il Lussemburgo per Amazon. Gli introiti realizzati in Italia figurano infatti come ricavi di servizi prestati da altre società del gruppo, con sede altrove. Il che costituisce un'elusione fiscale che penalizza l'Agenzia delle entrate e distorce la concorrenza a sfavore dei venditori italiani di beni, servizi o spazi pubblicitari.

A molti, tuttavia, la Google Tax non è piaciuta per niente. Ad esempio a Matteo Renzi, che prima ha parlato di una «nuvola nera di Fantozzi sulla Rete italiana», poi ha chiesto a Letta di rinviare la decisione «a dopo una riflessione sistematica nel semestre europeo» e infine ha ottenuto la revisione che esclude l'e-commerce.

E se Beppe Grillo è ancora più duro («Le larghe intese uccidono il Web, quello che non esiste da nessun'altra parte in Europa da noi sta per diventare realtà»), anche diversi più pacati osservatori dell'economia digitale hanno messo in guardia dalle possibili conseguenze di questa legge. Il rischio connesso alla prima formulazione, infatti, era che dovessero dotarsi di partita Iva italiana non solo le grandi corporation, ma anche le migliaia di start-up e di piccole società straniere che da noi vendono software, applicazioni e infinite altre soluzioni ampiamente usate dalle imprese italiane, specie quelle piccole.

Parte di queste aziende estere, probabilmente, avrebbero preferirito rinunciare al nostro mercato, tagliando fuori l'Italia dalla net economy e ostacolandone lo sviluppo tecnologico: il che, per un Paese già in fondo a tutte le classifiche europee sull'innovazione, non sarebbe stato un gran passo in avanti.

Ora questo scenario sembra scongiurato, ma molto dipende da quale sarà, nel testo definitivo e nei "collegati", la reale estensione dell'obbligo.

Restano invece d'attualità altre obiezioni, a partire dalla compatibilità della nuova norma con i regolamenti Ue sul libero scambio: «È solo una norma protezionista», taglia corto Stefano Quintarelli, esperto di Web e deputato di Scelta Civica, che aggiunge: «Nel resto del mondo ci ridono già dietro». Anche il columnist di tecnologia di "Forbes" Tim Worstall ha definito «illegale» la Google Tax e sulla stessa linea è il nuovo responsabile economico del Pd, Filippo Taddei: «Se non la cancelliamo noi, la cancella l'Europa», dice.

Incerta anche la cifra che lo Stato incasserebbe dalla nuova imposta. Secondo i suoi sostenitori, potrebbe arrivare fino al miliardo l'anno; per Carlo Alberto Carnevale-Maffè, docente della Bocconi, si limiterebbe a una ventina di milioni. Anche perché, sostengono diversi tributaristi, rischierebbe di portare nelle casse dell'erario non l'intera imposta sugli utili, ma solo l'Iva. «I danni per l'economia del Paese e perfino per i bilanci dello Stato sarebbero comunque superiori ai benefici», dice Quintarelli, «perché la possibile riduzione di servizi Web utilizzabili dalle imprese italiane va nella direzione opposta allo sviluppo».
Però il problema, di nuovo, c'è.

È singolare, ad esempio, che nel 2012 un colosso come Facebook abbia pagato in Italia meno di 200 mila euro di tasse, mentre Amazon è rimasta sotto il milione e Google è arrivata a 1,8 milioni. Tutti insieme quindi i tre giganti digitali hanno versato allo Stato italiano, l'anno scorso, circa 3 milioni di euro: briciole rispetto alla loro attività reale nel nostro Paese.

Ancora più grottesca la vicenda di Apple, che in Italia nel 2012 ha realizzato vendite superiori ai 2 miliardi di euro pagando però solo 3 milioni di tasse (compresi i brani e i film di iTunes): il tutto grazie a una serie di abili partite di giro (del tutto legali) tra le varie società con sedi tra Lussemburgo, Irlanda e Olanda. L'azienda di Cupertino del resto è considerata la regina planetaria dell'elusione fiscale e il suo amministratore delegato Tim Cook è stato chiamato al Senato americano per fornire spiegazioni sugli incassi mostruosi formalmente realizzati nel Nevada e a Dublino.

Il problema, nel suo complesso, non è peraltro solo italiano. In Francia, ad esempio, l'anno scorso Google ha versato allo Stato solo 5,5 milioni di euro: senza scappatoie e triangolazioni, sostengono le autorità fiscali di Parigi, l'introito per l'erario francese sarebbe stato di almeno 150 milioni.

Ciò nonostante, all'estero le ipotesi di introdurre una Web Tax come quella proposta da Boccia e Fanucci sono state scartate, dopo lunghe analisi sul bilancio tra danni e benefici. Sempre in Francia, il presidente della commissione Bilancio del senato Philippe Marini (gollista) ha chiesto per anni una norma simile a quella oggi in discussione in Italia, ma il presidente François Hollande e il ministro dell'Innovazione Fleur Pellerin hanno deciso invece di muoversi verso forme di pressione sugli altri governi europei e su tutte le istituzioni Ue nel tentativo di arrivare a una legislazione comune, a norme che valgano su tutto il territorio dell'Unione, proprio per impedire le elusioni delle corporation.

Decisivo in questo senso è stato il parere emesso dal Conseil National Numérique, il gruppo di esperti che fornisce consulenza al governo sulle questioni digitali, secondo il quale «su questo tema è indispensabile muoversi come Unione: un Paese che introduce una tassa da solo non ha rapporti di forza favorevoli». Insomma, il principio a cui si ispirano Hollande e Pellerin è lo stesso che da noi ha mosso Boccia e Fanucci (impedire le elusioni milionarie dei big digitali): tuttavia le modalità scelte per avvicinarsi all'obiettivo sono state molto diverse.

Ma l'Europa poi fa qualcosa davvero? Difficile dirlo. Algirdas Semeta, commissario alla fiscalità, di recente ha proposto di modificare le normative societarie Ue introducendo clausole anti-abuso per i Paesi che cercano di spostare i soldi da una controllata all'altra. Obiettivo: «Garantire che la tassazione avvenga sulla base della reale sostanza economica», ha detto Semeta. Allo scopo la Commissione ha incaricato un team tecnico di elaborare il modello di una tassazione digitale univoca in tutta l'Unione: lo presiede l'ex ministro delle Finanze portoghese Vitor Gaspar.

Insomma qualcosa sembra muoversi. Tuttavia è all'interno della stessa Ue che rischiano di trovarsi gli ostacoli più grossi: soprattutto per le posizioni di Irlanda, Lussemburgo e Olanda, che sono i maggiori beneficiari dell'attuale sistema.
Così mentre la Francia chiede con forza stringenti regole fiscali europee, diversi altri Paesi nicchiano o cercano di muoversi da soli, come l'Italia, con norme dagli improbabili vantaggi collettivi e dalla probabile bocciatura proprio a livello di Unione europea.

Ma c'è, allora, una soluzione?Forse, ma solo se le opinioni pubbliche di tutta Europa fanno propria la battaglia francese, costringendo i loro partiti e i loro governi a sostenere la campagna Hollande-Pellerin (o simili) per arrivare a norme comuni che impediscano l'elusione senza uccidere l'innovazione. Anche la proposta Fanucci-Boccia può avere un'utilità solo se ha una funzione di stimolo in questa direzione nel dibattito pubblico.
Certo, è una battaglia politica difficile, ma non impossibile. E in qualche modo sarebbe metaforica di un mondo che alla globalizzazione dell'economia sa far seguire anche la globalizzazione della democrazia.

 

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