DIAZ, NON È TUTTO DIMENTICATO – IL “CORRIERE” AFFRONTA IL CASO DE GENNARO: “È OPPORTUNO CHE SIA PRESIDENTE DELLA FINMECCANICA CHI ERA A CAPO DELLA POLIZIA MENTRE SI COSUMAVA QUELLA PAGINA NERA DELLA DEMOCRAZIA?” – NOMINATO DA LETTANIPOTE, CONFERMATO DA RENZI

1.I DUBBI SULLE NOMINE PER DE GENNARO

Sergio Rizzo per il “Corriere della Sera

 

Giovanni De Gennaro Giovanni De Gennaro

Nella sentenza che ha confermato le condanne per alcuni responsabili delle efferatezze alla scuola Diaz la Cassazione scrive che quei fatti «hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». Ma si sa che in Italia le parole scorrono come l’acqua fresca. Ora però la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha stabilito che quelle persone (non meritano di essere chiamati poliziotti) si macchiarono di un crimine orrendo qual è la tortura. E questo giudizio è decisamente più pesante, per gli effetti reputazionali sul Paese. Al punto da far sorgere una domanda che già si doveva porre dopo la sentenza italiana. Qualcuno in effetti la fece.

 

DE GENNARO DE GENNARO

Prima i deputati Andrea Sarubbi e Furio Colombo, poi il loro collega Ermete Realacci. Inutilmente, però. La domanda riguarda l’opportunità di certe scelte. È opportuno che la presidenza della Finmeccanica, società pubblica più esposta ai giudizi internazionali insieme all’Eni, sia stata affidata a chi era capo della polizia mentre si consumava quella pagina nera della democrazia italiana? Conosciamo la giustificazione: De Gennaro è stato pienamente assolto da ogni accusa. Siamo felici per lui. Ma non ci sfugge nemmeno la differenza che passa fra responsabilità penale e oggettiva. Che vanno sempre tenute ben distinte. Dopo i fatti del G8 De Gennaro è salito al vertice dei servizi segreti, poi a Palazzo Chigi con Monti. Infine alla presidenza della Finmeccanica con Letta, confermato da Renzi. E con tutto il rispetto per l’ex capo della polizia e i suoi meriti professionali, ci permettiamo di insistere: è stato opportuno? 

 

 

2. LA “MACELLERIA MESSICANA” CHE CONCLUSE IL G8 DELLA FOLLIA

Marco Menduni per “la Stampa

 

Erano le 9 del 20 luglio 2001 quando i black bloc si presero le strade di Genova. Solo quella mattina si intuì che il summit dei Grandi non sarebbe passato alla storia solo per la riunione degli uomini più potenti della Terra. La certezza arrivò nel pomeriggio, in piazza Alimonda, quando un proiettile stroncò la giovane vita di Carlo Giuliani. Una jeep dei carabinieri rimase bloccata tra i manifestanti più violenti. Giuliani tentò di centrarla con un estintore; un carabiniere, Mario Placanica, sparò e lo uccise. Il proiettile, sentenziò l’indagine, fu deviato da un sasso, tra la gragnuola di oggetti che stanno piombando sul mezzo. Favola finita: da quel momento il G8 di Genova sarebbe stato inesorabilmente associato a quella tragedia.

DIAZDIAZ


Il giorno prima c’era stato il grande corteo dei migranti: 50 mila presenze, un serpentone festoso, nessuna violenza. Prima ancora un mese di trattative tra Disobbedienti, istituzioni, polizia. Tutto sembrava calibrato a puntino. Certo, c’erano stati gli allarmi degli 007: improbabili catapulte per violare la “zona rossa”. 


All’aeroporto Colombo erano stati sistemati i missili Spada già visti in azione in Kosovo. E poi la città blindata: le forche caudine dei valichi, del controllo dei pass e dei documenti, delle continue perquisizioni, dei posti di blocco. E i bastioni della fortezza: le grate della “zona rossa”. Alle 10 del mattino del 20 luglio il primo segnale che qualcosa non va, nel quartiere della Foce. Arriva un gruppetto con il volto coperto dai passamontagna. Prende d’assalto le vetrate di una banca, distrugge le insegne di un’agenzia immobiliare. 

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La polizia? I carabinieri? Non ci sono. Non c’è nessuno. In quel momento affiora la percezione che tutto sarebbe scappato di mano. I gruppi dei black bloc si fanno beffe dei reparti schierati, che si muovono lenti, impacciati. Ci sono scontri, incendi. I duri della protesta monopolizzano la giornata di guerriglia urbana. C’è persino una conquista simbolo, quella del carcere di Marassi: in un centinaio sfondano le vetrate della sala colloqui, lanciano molotov contro il portone secondario, scardinano finestre, devastano l’ufficio del direttore. 

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Un palazzo rischia di andare a fuoco nel quartiere di San Fruttuoso. Un blindato dei carabinieri viene dato alle fiamme, i militari riescono a fuggire. Le forze dell’ordine? Non ci sono e quando entrano in azione, spesso picchiano e manganellano chi non c’entra nulla. C’è una foto che racconta tutto: il volto di un ragazzo di 15 anni che ha ricevuto un calcio in faccia da un poliziotto. È sera, la conta dei feriti si attesta a 180. E non è finita. Dalla mattina dopo si replica. Sarà ancora una giornata di violenza: cariche, manganellate, candelotti lacrimogeni. Poi la città comincia a svuotarsi. 

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Ma accade qualcosa di imprevisto e imprevedibile. La polizia dà improvvisamente l’attacco alla scuola Diaz, dove si sono radunati i manifestanti che ancora non hanno lasciato la città. Dormono tranquilli, ma la polizia dà l’assalto. Fa irruzione, picchia selvaggiamente. Il pestaggio fa 61 feriti, di cui tre in prognosi riservata e uno in coma. È la «macelleria messicana» che nel processo fu descritta dal vicequestore Michelangelo Fournier.

 

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L’inchiesta annasperà tra tentativi di depistaggio, connivenze, falsi per non far scoprire la vera identità dei picchiatori. Per rendere più verosimile la tesi della pericolosità dei giovani della Diaz, furono mostrate due molotov (in realtà sequestrate altrove) annoverandole nel loro “arsenale”. Il processo si concluderà con 25 condanne. Emergeranno anche le umiliazioni, le sopraffazioni, le violenze inflitte ai giovani fermati sulla strada e portati alla caserma del reparto mobile di Bolzaneto, trasformata in carcere provvisorio.

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