LA STANZA DEI LAVORETTI SPORCHI - COME FUNZIONAVA LA SALA OPERATIVA SEGRETA DI MPS CHE, SOTTO LA REGIA DI MUSSARI E BALDASSARRI, HA GESTITO DECINE DI MILIARDI DI EURO, MUOVENDO FINO A 100 MILIONI AL GIORNO

Gianfrancesco Turano per ‘L'Espresso'

Erano i ragazzi di via Rosellini. Una quindicina di trentenni e quarantenni brillanti, alcuni con cognomi di peso, tutti con esperienze presso primari istituti di credito italiani e internazionali. Fra il 2009 e il 2011 i ragazzi di via Rosellini hanno gestito decine di miliardi di euro, muovendo fino a 100 milioni al giorno dalla sala operativa milanese del Monte dei Paschi di Siena, un palazzone di vetro e cemento recintato da qualche siepe e un paio di alberi in zona viale Zara, lontano dal centro nevralgico della city meneghina.

Il capo della sala operativa era Gianluca Sanna, responsabile del servizio di finanza proprietaria. Ma sopra Sanna c'era il vero stratega, Gianluca Baldassarri, capo della finanza Mps agli ordini diretti dei vertici di Siena, il presidente Giuseppe Mussari e il direttore generale Antonio Vigni.

Chi ci ha lavorato descrive Baldassarri, unico fra gli undici indagati per la truffa a Mps ad essere finito in carcere, come quanto di più lontano dallo squalo della finanza in stile Gordon Gekko: «Pacato. Molto competente. Sapeva di trading, contabilità, legislazione, tasse, rapporti con i sindacati. Il migliore, là dentro. Ma eseguiva ordini dall'alto e la sala operativa era concepita per eseguire questi ordini.

Non c'erano telefonate registrate, non c'era il badge per entrare e ci si poteva portare dietro il cellulare personale. Negligenza o dolo? Di sicuro, erano le condizioni ideali per disperdere le tracce». A parlare, è uno dei ragazzi di via Rosellini. Chiamiamolo "Banker". Chiede di restare anonimo perché non è indagato nell'inchiesta della procura di Siena contro la cosiddetta "banda del 5 per cento" ma è già stato sentito come testimone dai segugi del nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza, guidati dal generale Giuseppe Bottillo e dal suo vice operativo, il colonnello Pietro Bianchi.

I finanzieri, che lavorano per i tre pm senesi Aldo Natalini, Antonio Nastasi e Giuseppe Grosso, sanno che la partita fra guardie e ladri non è mai così impari come in banca. L'inchiesta deve determinare se i vertici di Mps, Mussari e Vigni, abbiano in prima battuta ordinato a Gianluca Baldassarri di usare la sala operativa e gli strumenti finanziari più sofisticati per mettere al bello i bilanci.

In seconda battuta, va provato che Baldassarri abbia unito il dovere verso i superiori con il piacere di concedersi qualche profitto al di là dei bonus, già molto consistenti, che le grandi banche riconoscono ai loro dirigenti di punta. La Guardia di finanza ha bloccato una serie di conti esteri intestati alla banda per una somma complessiva che, al momento, supera di poco i 50 milioni su 90 milioni di euro totali sifonati alle casse dell'istituto toscano.

Ma la pistola fumante non è stata ancora trovata. Come non è stato individuato, a differenza di quanto sostenuto da alcune ricostruzioni giornalistiche, l'anonimo autore della lettera spedita prima alla Consob e poi alla redazione di "Report" per denunciare gli imbrogli del trading al Monte. «È uno di via Rosellini», dice la fonte Banker a "l'Espresso". «Concordo sulla tesi che Baldassarri non agisse soltanto su iniziativa personale.

Forse teneva qualcosa per sé ma non sarà facile dimostrare che i 20 milioni di euro dei suoi depositi siano frutto degli extraprofitti a margine dell'operazione Alexandria. Potrebbero essere premi di rendimento. In sala trading girava voce che anche la controparte di Alexandria alla Nomura, Raffaele Ricci, avesse preso 20 milioni di bonus complessivi fra il 2009 e il 2010. Quando un'operazione porta tanti soldi, i bonus sono in proporzione. In Monte Paschi, però, vigeva un sistema win-win: si vince e si incassa anche quando l'operazione è un disastro».

Come nel caso di Alexandria. Questo prodotto viene varato nel novembre 2005 tra il compratore Mps, rappresentato da Gianluca Baldassarri, arrivato in Mps da quattro anni, e il venditore Dresdner bank, rappresentato da Raffaele Ricci, al tempo head sales, capo delle vendite di Dresdner.

Alexandria è un Cdo (credit default obligation) squared da 400 milioni di euro. Si rivelerà un asse tossico da manuale: chilometri di formule matematiche decifrabili da una dozzina di superspecialisti, ma non certo dalle strutture del Mps, dove nessuno per anni sarà in grado di prezzare i prodotti strutturati più complessi.

Alexandria e altri asset simili (Nota Italia, alcuni Clo, Anthracite) minano in silenzio i conti di Mps ancora prima che arrivi la batosta dell'acquisizione di Antonveneta, annunciata nel novembre 2007 e portata a termine a maggio del 2008 con circa 10 miliardi di euro di investimento. La cifra è altissima e la scelta del momento fra le peggiori: è la vigilia della grande crisi del credito internazionale culminata nel fallimento di Lehman brothers (settembre 2008).

Mussari e Vigni vogliono dare un segnale rassicurante al mercato e puntano a un robusto utile per pagare il dividendo e la cedola al prestito "fresh" da 1 miliardo usato per comprare Antonveneta. Per raggiungerlo si affidano alla finanza proprietaria e dunque alla sala di via Rosellini, dove Baldassarri, che fa la spola fra Siena e Milano, Sanna, Gianni Contena, Giovanni Fulci e altri dirigenti oggi coinvolti dall'indagine interna del nuovo management Mps, si mettono al lavoro.

Il 2008 viene chiuso con 953 milioni di profitti netti. Ma è una cifra fasulla, ottenuta coprendo le perdite di Alexandria & c. Dai primi mesi del 2009 si cambia passo. La banca potenzia la sala operativa di via Rosellini e soprattutto l'area dei titoli governativi. La strategia è semplice. In un momento in cui tutti, piccoli risparmiatori in testa, vendono Btp per paura del default Italia, Mps si finanzia a lungo termine in Bce all'1 per cento e compra bond italiani che rendono il 6 per cento. Se l'Italia fallisce, il Monte Paschi fallirà un po' prima. E comunque si troverà in vasta compagnia. Se no, c'è da guadagnare. Ma è un lavoro duro.

«Chi lo fa», continua la fonte Banker, «incomincia alle otto di mattina con il briefing. Dall'apertura alle nove, deve guardare ogni scatto sui monitor, seguire tre schermi tv e due radio. Ogni notizia può essere importante per comprare a un centesimo di meno o vendere a uno di più, perché si deve vendere, ogni tanto, per sviare la concorrenza».

Qui entrano in gioco i broker che esistono proprio per garantire l'anonimato ed evitare che una banca sappia quello che fa un'altra. L'anomalia sta nell'uso frequente di un piccolo intermediario londinese (Enigma) fondato da Maurizio Fabris e da altri italiani oggi inquisiti a Siena.

In breve tempo, Mps accumula 32 miliardi di titoli governativi, all'incirca quanto Unicredit e un po' meno di Intesa che, però, sono le due maggiori banche italiane. Nell'isola "governativi" entrano forze fresche. Tra i nuovi, c'è Flavio Borghese. Suo nonno era il dodicesimo principe di Sulmona e suo prozio si chiamava Junio Valerio, comandante della X Mas. Borghese, anch'egli oggi sotto indagine interna della banca, è un superesperto e presto nota prezzi troppo alti in una serie di transazioni su titoli strutturati.

«Per usare un paragone con le imprese industriali», prosegue Banker, «diciamo che Mps aveva un magazzino sopravvalutato di parecchie centinaia di milioni per volontà strategica dell'alta dirigenza. Non se ne sono accorti, nell'ordine, sindaci, revisori, Consob, Bankitalia e agenzie di rating». Eppure Borghese e altri trader segnalano le anomalie ai colleghi milanesi, a Baldassarri, a Sanna e a Giovanni Conti, responsabile della gestione rischi a Siena. Ma non succede nulla.

Ai primi di luglio del 2009 si capisce che ingorgare il portafoglio di Btp non basta. Bisogna liberarsi del bubbone Alexandria. Mussari, Vigni e Baldassarri concordano con Nomura il "mandate agreement" con cui, in sostanza, la filiale di Londra della banca giapponese si accolla l'asset tossico in cambio di 3,5 miliardi di Btp con scadenza 2034 comprati da Mps a prezzi sopra mercato. Le anomalie sono nell'ordine di centinaia di migliaia di euro fin dalle prime operazioni, vengono notate e comunicate ai responsabili. Gli acquisti, come rivelerà l'anonimo della lettera, verranno etichettati come "trading Baldassarri, sinonimo di lasciapassare all'interno della banca".

È questa la fase in cui, grazie al ricorso massiccio a intermediari, gli inquisiti avrebbero massimizzato i profitti personali a danno dei conti della banca e tenendo all'oscuro gli organi di controllo interni e la vigilanza di Bankitalia. «È quasi impossibile provare che i broker abbiano guadagnato troppo su titoli strutturati illiquidi. In più, va dimostrato che il broker ha girato denaro al manager alla banca in rapporto diretto a una particolare operazione. Il tutto, come dicevo all'inizio, in mancanza di registrazioni telefoniche compromettenti e senza contare che tutte le grandi banche del mondo usano questo sistema per fare il nero».

Anche se i conti Mps del 2009 segnano una riduzione consistente dell'utile netto a 220 milioni di euro, Mussari è sulla cresta dell'onda tanto da essere premiato dall'establishment creditizio con la poltrona di presidente dell'Associazione bancaria italiana a giugno del 2010.

In via Rosellini Baldassarri porta Raffaele Bertoni, ex capo del reddito fisso alla Pioneer Investments di Dublino, e Marco Sarcinelli, figlio di Mario, ex Bankitalia ed ex presidente Bnl. La banda del 5 per cento lavora quasi indisturbata fino all'estate del 2011. Il 28 luglio di quell'anno uno dei ragazzi di via Rosellini spedisce alla Consob una lettera di quattro pagine non firmata "per motivi di sicurezza personale" dove si accusano i capi (Baldassarri e Vigni), l'assistente fidato, i complici e gli esecutori. A marzo 2012 arriverà l'ispezione di Bankitalia. A febbraio 2013, ci sarà l'arresto di Baldassarri e l'emissione di 4,07 miliardi di obbligazioni sottoscritte dallo Stato (i cosiddetti Monti bonds) per tappare le falle della mala gestione.

Passerà ancora un anno fino al febbraio del 2014, quando la Finanza perquisirà decine di uffici e abitazioni di uomini legati alla banda del 5 per cento.

Fra questi, ci sono gli intermediari sospettati di avere trasferito il denaro all'estero attraverso la finanziaria sanmarinese Smi del conte Enrico Maria Pasquini e la United investments bank di Vanuatu di Andrea Pavoncelli, cognato di Pasquini e uno dei supertestimoni della Procura di Siena. E una strada per forzare il blocco è proprio questa: cercare testimoni o indagati disponibili a collaborare. È successo con Italia Sinopoli, dipendente di Mps finance inquisita per la truffa aggravata alla banca toscana. Ai primi di marzo Baldassarri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Sta scrivendo un diario, ha fatto sapere. I magistrati attendono con ansia le bozze.

 

 

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