COME SNOWDEN HA BEFFATO IL GOVERNO DEGLI STATI UNITI – IN LIBRERIA IL DIARIO DI GLENN GREENWALD SULLA PIÙ STRAORDINARIA FUGA DI NOTIZIE DELLA STORIA DEI SERVIZI SEGRETI

1 - SPIE, INTERCETTAZIONI (E ALLIGATORI): LO SCOOP SULLA «SORVEGLIANZA DI MASSA»
Michele Farina per il "Corriere della Sera"

Cincinnato, un cubo di Rubik, Barack Obama, un alligatore di plastica come segnale in codice per il primo incontro: il diario di Glenn Greenwald sulla più straordinaria fuga di notizie della storia dei servizi segreti è pieno di personaggi e incroci imprevedibili.

Come i suoi protagonisti, un avvocato-giornalista free-lance e un candido spione della Rete che non ha finito le scuole superiori: due formidabili outsider americani che, da decentrati punti del globo (Honolulu e Rio de Janeiro), tra mille diffidenze e mille difficoltà si danno appuntamento all'hotel Mira di Hong Kong e da lì, con i cuscini sotto la porta per paura di essere intercettati, mettono in scacco il governo degli Stati Uniti, svelando a puntate il più grande piano di sorveglianza di massa mai concepito.

Tutti sotto controllo in nome della sicurezza e dell'anti-terrorismo, gente comune e vip, miliardi di metadati raccolti e archiviati: dai telefonini ai social network, Microsoft e Facebook, dagli sms della presidente brasiliana Rousseff alle conversazioni al cellulare di Angela Merkel.

Comunque li si giudichi (eroi della libertà o traditori della patria), Edward Snowden e Glenn Greenwald, la pallida talpa della Cia e il combattivo reporter-attivista, hanno mosso i fili di un'incredibile spy-story che ha un po' cambiato il nostro modo di vedere e «vivere» Internet, il diritto alla privacy e il bisogno di sicurezza. A scorrere le cronologie del 2013, il caso Snowden è tra i due o tre «piatti forti» dell'anno. I suoi effetti di lungo periodo sono tutti da scoprire. Come ancora in gioco sono i destini dei protagonisti.

Con Snowden temporaneamente «sparito» dai radar e perso nel suo esilio russo, è Greenwald a proseguire la crociata contro «la sorveglianza di massa»: «Una popolazione che si sente osservata giorno e notte non tarderà a trasformarsi in una società malleabile e pavida» scrive il premio Pulitzer 2014 all'inizio di «No place to hide» (nessun luogo dove nascondersi), il diario che esce il 13 maggio in tutto il mondo (in Italia pubblicato da Rizzoli con il titolo «Sotto Controllo»).

Dalla sua casa di Rio de Janeiro Greenwald racconta i retroscena dell'incontro e della collaborazione con Snowden un anno fa, dai primi contatti anonimi sulla Rete alla pubblicazione degli scoop sul Guardian fino all'approdo moscovita dell'ex agente della National Security Agency super-ricercato negli Usa. Spiega come siano riusciti, lui e la documentarista Laura Poitras, a evitare le trappole (non solo) informatiche nel cammino verso il fuggiasco di Hong Kong.

E i tentativi di bruciarne la credibilità nei mesi successivi. Difficile per degli outsider trovare un posto dove nascondersi dalle pressioni dei governi, il gioco più o meno sporco di certi mezzi di informazione, gli agganci tra servizi segreti e «magnati di Internet». Nascondersi anche dalle luci di una piacevole e imprevista notorietà globale: Greenwald racconta lo scoop della sua vita con l'orgoglio del protagonista. Comunque lo si giudichi (nel libro racconta divertito come gli abbiano dato persino della «porno-spia»), «Sotto Controllo» non è il diario di un malleabile pavido.

2 - VI RACCONTO COME SVELAI IL DATAGATE
Brano tratto da "No place to hide. Sotto controllo", libro di Glenn Greenwald e pubblicato dal "Corriere della Sera"

Il giovedì, quinto giorno a Hong Kong, andai da Snowden in albergo. Mi accolse dicendo di avere notizie «un po' allarmanti». Un dispositivo di sicurezza connesso a Internet nella casa da lui un tempo condivisa con la sua ragazza, alle Hawaii, aveva rilevato l'arrivo di due uomini della Nsa - un addetto alle risorse umane e un «poliziotto» dell'agenzia - venuti a cercarlo. Ciò, a suo parere, significava quasi certamente che la Nsa lo aveva identificato come probabile artefice della fuga di notizie.

Diede segni di inquietudine soltanto quando gli domandai se temesse ripercussioni: aveva paura che il governo potesse vendicarsi sulla sua famiglia e sulla sua fidanzata. Per limitare i rischi si sarebbe astenuto dall'entrare in contatto con i suoi cari, ma sapeva di non avere i mezzi per proteggerli come avrebbe voluto. «Che cosa ne sarà di loro? È l'unico problema che mi tiene sveglio la notte» disse con gli occhi umidi; è stata la prima e l'ultima volta che l'ho visto commosso (...).

Ogni giorno che passava, le ore e ore trascorse insieme creavano tra noi un legame sempre più profondo. L'imbarazzo e la tensione del primo incontro si erano rapidamente trasformati in un rapporto di collaborazione, fiducia e comunione d'intenti. Sentivamo di vivere uno degli eventi più importanti della nostra vita. Tuttavia, l'atmosfera relativamente più leggera che eravamo riusciti a mantenere nei primi giorni fece posto all'inquietudine: nemmeno ventiquattro ore e avremmo rivelato al mondo l'identità di Snowden. Sapevamo che quel gesto avrebbe cambiato tutto (...). Una sorta di macabro umorismo s'insinuò nei nostri discorsi.

«A me tocca la branda di sotto a Guantánamo» ironizzava Snowden, contemplando le nostre prospettive, e mentre parlavamo dei futuri articoli diceva cose tipo: «Questo finirà nell'atto d'accusa». Per lo più restava comunque incredibilmente calmo. Continuò ad andarsene a letto alle dieci e mezza, come ogni sera dal mio arrivo a Hong Kong, anche adesso che l'orologio scandiva forse i suoi ultimi attimi di libertà. Io riuscivo a malapena a chiudere occhio per un paio d'ore, ma lui non variò le sue abitudini.

«Be', credo che me ne andrò a nanna» annunciava distrattamente ogni sera, prima di ritirarsi per le sue sette ore e mezza di sonno, ricomparendo il mattino dopo fresco e riposato. Quando gli chiedevamo come facesse a dormire, date le circostanze, rispondeva di sentirsi perfettamente in pace, riguardo a ciò che aveva fatto: per questo le sue notti non erano tormentate. «E poi non credo mi restino molti giorni in compagnia del mio morbido cuscino» scherzava. «Tanto vale approfittarne» (...).

Un giorno, prima di lasciare la mia camera per raggiungere Snowden, mentre sedevo sul letto mi tornò improvvisamente in mente Cincinnatus, il mio corrispondente anonimo di sei mesi prima, quello che mi aveva bombardato di sollecitazioni per invitarmi a installare un programma di crittografia. Forse anche lui aveva grandi rivelazioni da trasmettermi. Non ricordavo la sua e-mail ma riuscii a risalire all'indirizzo da uno dei suoi vecchi messaggi. «Ciao, buone notizie», gli scrissi.

«Mi rendo conto che ci è voluto un bel pezzo, ma ho finalmente iniziato a proteggere la posta elettronica con pgp. Possiamo parlare quando vuoi se sei ancora interessato». Più tardi, quando arrivai in camera sua, Snowden mi accolse con più di una punta di sarcasmo: «A proposito, quel tale Cincinnatus al quale ha appena scritto... ero io». Non riuscivo a capacitarmene: la persona che parecchi mesi prima aveva tentato in ogni modo di indurmi a cifrare la mia posta elettronica era Snowden. Non eravamo entrati in contatto in maggio, una trentina di giorni addietro, come avevo sempre creduto, ma molti mesi prima. Aveva tentato di raggiungere me prima di contattare chiunque altro (...).

Alle cinque del mattino, poche ore dopo che l'articolo su Snowden era stato pubblicato, mi telefonò un mio lettore di vecchia data che viveva a Hong Kong. Mi fece notare che presto tutto il mondo si sarebbe messo a cercare Snowden e sosteneva che bisognasse procurargli quanto prima avvocati locali bene inseriti negli ambienti del potere. Avrebbe potuto metterci in contatto con due dei migliori legali specializzati in diritti umani, che erano pronti a rappresentarlo (...).

Snowden era ansioso di andarsene. Gli dissi dei due legali, pronti a raggiungerlo. Rispose che avrebbero dovuto passare a prenderlo e portarlo in un posto sicuro. Era, disse, «il momento di dare inizio alla fase del piano in cui chiedo al mondo protezione e giustizia». «Ma devo riuscire a lasciare l'albergo senza farmi riconoscere dai giornalisti» aggiunse. «Altrimenti mi seguiranno ovunque». Riferii agli avvocati le sue preoccupazioni.

«Ha qualche idea per camuffarsi, in modo da evitarlo?» domandò uno dei due. Trasmisi la domanda. «Mi sto appunto attrezzando per cambiare aspetto» disse. Evidentemente ci aveva già pensato. «Posso rendermi irriconoscibile». (...) Gli avvocati pensavano di condurlo alla Missione Onu di Hong Kong e chiedere ufficialmente la protezione delle Nazioni Unite dal governo Usa, presentandolo come un rifugiato richiedente asilo politico. Oppure, dissero, avrebbero tentato di procurargli un nascondiglio sicuro (...). Con un po' di apprensione chiamai il cellulare di uno degli avvocati. «Il nostro uomo è riuscito ad andarsene prima che i giornalisti iniziassero a invadere il piano» disse. «Lo abbiamo incontrato in una stanza del suo hotel.»

Più tardi venni a sapere che si trattava della saletta con l'alligatore, quella dove aveva incontrato noi la prima volta. «Poi abbiamo attraversato un ponte che collega l'albergo a un centro commerciale e infine siamo saliti sull'auto che ci stava aspettando. Adesso è qui con noi». Dove lo stavano portando?

«Meglio non parlarne per telefono» rispose l'avvocato. «È al sicuro per ora». Pensare che Snowden fosse con persone fidate era un gran sollievo per me, ma sapevo che con tutta facilità non lo avremmo mai più rivisto e non avremmo più parlato con lui, quantomeno non come a un uomo libero. Probabilmente, pensai, ci sarebbe apparso in televisione, dentro un'aula di tribunale statunitense, con una tuta arancione da detenuto addosso e in manette, accusato di spionaggio. Mi collegai a Internet, sperando di avere notizie. Nel giro di alcuni minuti si collegò anche Snowden. «Sto bene» mi disse.

«Per il momento sono in un posto segreto. Quanto sicuro o per quanto a lungo potrò restare, non saprei dire. Devo muovermi di continuo: la connessione è inaffidabile, non posso prevedere quando o quanto spesso mi troverà online». Mi rendevo conto che il mio contributo alla sua nuova vita clandestina non poteva che essere modesto. Era schizzato in testa alla lista dei criminali più ricercati dal più potente governo del mondo. Gli Stati Uniti avevano già chiesto alle autorità di Hong Kong di arrestarlo ed estradarlo in America. Ci augurammo entrambi di restare in contatto. Gli raccomandai di badare alla sua sicurezza.
Glenn Greenwald

 

 

 

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