1- COSE MAI VISTE! SCALFARI E BELPIETRO UNITI NELLA LOTTA CONTRO TRAVAGLIO ED INGROIA 2- BARBAGENIO: “I PROCURATORI DI PALERMO (LEGGI INGROIA) HANNO PROVVISTO DI MUNIZIONI ALCUNI DEI GIORNALI (LEGGI “IL FATTO”) CHE SI SONO DISTINTI IN QUESTA CAMPAGNA DI INSINUAZIONI CONTRO D’AMBROSIO 2- E SI TOGLIE LO SFIZIO DI PICCHIARE IN TESTA AI DUE COLLABORATORI DI “REPUBBLICA”, FRANCO CORDERO E BARBARA SPINELLI, REI DI INTELLIGENCE CON “IL FATTO” 3- BELPIETRO NON SI TIRA INDIETRO: “STRAFATTO QUOTIDIANO”, “PULPITI DEL FANGO’’, IL “FALSARIO QUOTIDIANO”

1- SCALFARI CONNONEGGIA TRAVAGLIO E INGROIA E SI TOGLIE LO SFIZIO DI PICCHIARE IN TESTA AI DUE COLLABORATORI DI "REPUBBLICA", FRANCO CORDERO E BARBARA SPINELLI, REI DI INTELLIGENCE CON "IL FATTO"
Eugenio Scalfari per La Repubblica

......Qualche parola che l'attualità mi impone perché proprio mentre scrivo queste righe si sta celebrando il funerale di Loris D'Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale.
Che sia stato aggredito da una campagna di insinuazioni per le sue telefonate con Nicola Mancino non c'è dubbio alcuno. Che sia attribuibile a quella campagna l'infarto che l'ha fulminato è un'ipotesi ma è certo che quelle insinuazioni e quelle vere e proprie accuse lo avevano profondamente ferito.

Gli autori sono noti: in particolare alcuni giornali e giornalisti e uomini politici che non si sono limitati ad insinuare e ad accusare il consigliere giuridico del Quirinale ma sono andati molto più in su, accusando il Capo dello Stato di ostacolare l'accertamento della verità sulla trattativa Stato-Mafia che si sarebbe svolta tra il 1992 e il '94.

I nomi di questi giornali, giornalisti e uomini politici sono già stati fatti. Anch'io li ho fatti poiché la completezza dell'informazione fa parte della nostra deontologia e viene prima di eventuali rapporti di amicizia privata.

I procuratori di Palermo non possono essere tacciati d'aver fatto campagna contro D'Ambrosio. L'hanno interrogato, ma questo entrava nei loro diritti-doveri di titolari dell'azione penale. I loro uffici tuttavia hanno provvisto di munizioni alcuni dei giornali che si sono distinti in questa campagna. Dico i loro uffici. Può esser stato un addetto alla polizia giudiziaria, un cancelliere, un usciere dedito a frugar nei cassetti e nelle casseforti.

Oppure uno di quei procuratori che comunque avrebbero avuto il dovere di aprire immediatamente un'inchiesta sulla fuga di notizie secretate. Ricordo che la notizia dell'intercettazione indiretta del presidente della Repubblica è stata data addirittura da uno di quei quattro procuratori in un'intervista al nostro giornale.

C'è altro da aggiungere? Sì, c'è altro. Il procuratore aggiunto di Palermo sostiene - nell'intervista che troverete su queste stesse pagine - che se l'intercettazione indiretta al Presidente della Repubblica risulterà coperta dalla ragione di Stato, la Procura rispetterà quella ragione e farà un passo indietro. Bene. Ma fa un grave errore se parla di ragione di Stato. Nessuno, e Giorgio Napolitano che ha invocato l'accertamento della verità meno che mai, ha parlato di ragione di Stato. Si parla invece del divieto di intercettazione del Presidente, sia diretta che indiretta. Questo è il contenuto del conflitto di attribuzione e non la ragione di Stato.

Gianluigi Pellegrino, in un articolo da noi pubblicato ieri, ha sostenuto che la legislazione attuale, all'articolo 271 del Codice di procedura penale, connesso con l'articolo 90 della Costituzione, contiene già la norma che stabilisce la distruzione immediata delle intercettazione vietate per legge e per Costituzione. In realtà invocare la ragione di Stato è una via di fuga.

C'è stato in questo caso un'infrazione estremamente grave da parte di una Procura della Repubblica per ignoranza delle norme. Escludo la malafede, ma l'ignoranza delle norme per chi maneggia professionalmente argomenti di estrema delicatezza non è cosa trascurabile.

Resta in piedi e mi addolora che alcune persone alle quali sono legato da profonda amicizia e stima abbiano sempre taciuto su questo aspetto della questione mentre sono larghi di incoraggiamenti a proseguire nell'accertamento della verità. L'incoraggiamento è anche il mio ma dopo venti anni dall'inizio di quell'inchiesta e dopo otto anni dal madornale errore di aver mandato all'ergastolo un innocente francamente dubito molto sulle capacità professionali di arrivare al desiderato accertamento della verità.

2- MA CHE RIDICOLE LE PREDICHE DAI PULPITI DEL FANGO
Maurizio Belpietro per Libero

La reazione di Marco Travaglio sul Falsario quotidiano era piuttosto scontata. Avendo condotto una campagna contro il Quirinale, utilizzando le intercettazioni tra Loris D'Ambrosio e Nicola Mancino a sostegno delle proprie tesi sulla trattativa Stato-mafia, il portavoce della Procura di Palermo ha prima parlato d'altro, evitando di commentare la morte del consigliere giuridico del presidente della Repubblica e le accuse che erano state mosse, direttamente a lui e al suo giornale, da Giorgio Napolitano.

Poi - passato un giorno - se l'è presa con i quotidiani che riportavano le frasi del capo dello Stato. Come se la notizia fosse la reazione dei colleghi e non che un uomo era morto e la più alta carica istituzionale del Paese aveva messo in relazione il suo decesso con la campagna stampa di Travaglio e dei suoi redattori.

Non dico che ci saremmo aspettati delle scuse, questo no, ma almeno uno straccio di difesa. E invece lo spiritoso vicedirettore dello Strafatto quotidiano mette da parte il diritto di satira dietro cui si nasconde quando lo chiamano a rispondere di ciò che scrive e si arrampica sugli specchi, inventando di essere vittima di corvi e sciacalli a mezzo stampa e sostenendo che niente sarebbe successo se il presidente della Repubblica avesse autorizzato D'Ambrosio ad accettare un'intervista con lui.

Certo, come no. Il problema è tutto lì, nella mancata confessione dinanzi al Robespierre di carta. Nel mondo di Fatto e Misfatto che si è costruito, Travaglio non vede altro che se stesso riflesso nello specchio, le sue ossessioni, il suo egocentrismo. Ma, come detto, da lui non c'era da aspettarsi altro e dunque la lapide redatta in morte di Loris D'Ambrosio ce la aspettavamo.

Un po' meno scontato è il corsivo di Michele Serra su Repubblica, un tipo che per la sua rubrica si è scelto un titolo che già è un programma di vita: «L'amaca». Anche lui naturalmente vorrebbe fare satira ed essere spiritoso, perché da piccolo devono averlo convinto che più si è spiritosi e più si appare intelligenti.

L'uomo, che da poco si é ritirato a coltivar lavanda nel suo podere biologico, alternativo, fuori dall'ottica del sistema, se la prende con Libero e il Giornale per il titolo sulla drammatica fine del consigliere giuridico di Napolitano. A Serra infatti non è andato giù che noi riportassimo le parole del presidente della Repubblica su una campagna di stampa ingiuriosa.

Ma come,- ha scritto -proprio loro che hanno praticato un «giornalismo sistematicamente ai confini con la caccia all'uomo? Basterebbe, per tutti, il caso Boffo, a suggerire prudenza a chi l'ha congegnato e messo in pratica». A parte il fatto che Libero non ha mai congegnato né messo in pratica alcunché nei confronti dell'ex direttore dell'Avvenire e dunque l'editorialista di campagna fa un po' di confusione, Serra dovrebbe essere un po' più cauto nell'esprimere giudizi.

Se infatti per un attimo si fosse sottratto ai lavori agricoli, non si sarebbe occupato del nostro pulpito, ma del suo, ossia del giornale e del gruppo editoriale per cui scrive. Nessuno meglio di Repubblica e dell'Espresso ha condotto campagne di stampa al limite non della caccia all'uomo, ma del linciaggio.

Fu Eugenio Scalfari - cioè il fondatore del giornale su cui Serra scrive - a firmare l'appello contro il commissario Luigi Calabresi, un manifesto che insieme agli attacchi di Lotta continua contribuì poi a creare il climache portò all'omicidio a sangue freddo del funzionario di polizia. Insieme a Scalfari, a sottoscrivere l'invito al linciaggio, non c'era nessuno di Libero, ma tanti editorialisti del gruppo Espresso, a cominciare da Giorgio Bocca per finire a Umberto Eco, passando per Camilla Cederna e tanti altri.

Maestri di giornalismo che negli anni Settanta inaugurarono una stagione violenta e ideologica che portò a mettere nel mirino chiunque non facesse parte del loro olimpo culturale e soprattutto non vi si genuflettesse. Dopo Calabresi toccò a Giovanni Leone, presidente della Repubblica che non faceva parte del circolo dell'Espresso e per questo fu costretto da innocente alle dimissioni, da cui non si riprese mai più.

Scalfari e la sua banda provarono a far fuori anche Francesco Cossiga, ma con lui andò male, perché l'allora capo dello Stato non era uomo da fuggire di notte. Altri ne seguirono, Berlusconi fra tutti. Il giornalismo partigiano, spregiudicato, la caccia all'uomo scatenata da cronisti ed editorialisti, la persecuzione a mezzo stampa, non sono dunque patrimonio di Libero, ma stanno nel dna di Repubblica e dei suoi compagni. E Serra lo dovrebbe sapere.

Forse sarà capace di usare la vanga - ne dubitiamo - e magari anche di far ridere. Ma di affrontare certe questioni proprio no. Meglio che lasci perdere. Si dia una calmata. Si riposi sull'amaca. Non vorremmo che affrontare cose serie fosse per lui un lavoro troppo faticoso.

 

SCALFARI E NAPOLITANO ALLA FESTA DEL 2 GIUGNOSCALFARI NAPOLITANONICOLA MANCINO E GIORGIO NAPOLITANONICOLA MANCINO E GIORGIO NAPOLITANO VIGNETTA MANNELLI - NAPOLITANO STIRO MANCINOGIORGIO NAPOLITANO E LORIS D'AMBROSIO LORIS DAMBROSIO jpegdambrosio belpietro rnd29 michele serraGiovanni LeoneCamilla Cederna a tavola con Dino Buzzati MAURIZIO BELPIETRO Luigi Calabresi ambrosio

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