DIPLOMAZIA PER CASO - VITTIMA DELLE SCELTE DEGLI ALTRI, OBAMA IMPAPOCCHIA UN DISCORSO E CHIEDE AL CONGRESSO DI RINVIARE IL VOTO

1. SIRIA, OBAMA AGLI AMERICANI "ABBIAMO IL DOVERE DI AGIRE" - IL PRESIDENTE ABBRACCIA LA SOLUZIONE DIPLOMATICA DELLA CRISI MA ORDINA AL PENTAGONO DI MANTENERE LA PRESSIONE MILITARE SU ASSAD
Maurizio Molinari per www.lastampa.it

Barack Obama abbraccia la soluzione diplomatica della crisi siriana ma ordina al Pentagono di mantenere la pressione militare su Bashar Assad per spingerlo ad accettare un disarmo chimico totale e "verificabile": è questo il contenuto di un messaggio di oltre 15 minuti pronunciato dal presidente americano alla nazione dalla East Room della Casa Bianca quando in Italia erano le 3 del mattino di oggi.

Sulle responsabilità del Raiss di Damasco, Obama è esplicito: "Nella guerra civile in Siria sono già morte 100 mila persone ma la situazione è mutata profondamente il 21 agosto quando il governo di Assad ha ucciso con i gas oltre mille persone, inclusi centinaia di bambini, mostrando al mondo i terribili dettagli delle armi chimiche e facendo così comprendere perché la schiacciante maggioranza delle nazioni le ha messe al bando".

L'uso dei gas evoca per Obama "i soldati americani uccisi a migliaia nelle trincee d'Europa nella Prima Guerra Mondiale" e le armi con cui "i nazisti inflissero l'orrore dell'Olocausto". Per questo nel 1997 ben 189 governi le dichiararono proibite "ma queste regole basiche sono state violate il 21 agosto".

Sulla responsabilità di Assad, Obama non ha dubbi: "Sappiamo che è stato il regime, nei giorni prima dell'attacco è stato il suo personale a preparare i gas, poi hanno distribuito le maschere a gas alle truppe, quini hanno lanciato razzi contro 11 quartieri nel tentativo di ripulirli dall'opposizione e infine hanno bombardato per cancellare ogni traccia". Le prove sono "schiaccianti", dice Obama sottolineando che "abbiamo studiato campioni di sangue e capelli prelevati da chi era lì e contengono tracce di sarin", il più letale dei gas.

Sono "atrocità" che "non solo costituiscono una violazione delle leggi internazionali ma pongono anche pericoli alla nostra sicurezza" aggiunge Obama, teso in volto, spiegando che la violazione del bando "può spingere altri tiranni ad acquistarli e usarli" con il risultato di "mettere a rischio le nostre truppe", "poter finire nelle mani di gruppi terroristi" e minacciare "partner e alleati come Turchia, Giordania e Israele". E' sulla base di tale valutazione che Obama rinnova la convinzione della necessità di un "attacco mirato" per "spingere Assad a non usare più le armi chimiche".

Fino a qui Obama usa il timbro del "comandante in capo" ma subito dopo cambia registro: "Sono il Presidente della più vecchia democrazia costituzionale della Terra" e dunque è in favore di un pronunciamento del Congresso sull'uso della forza "anche se ora ho dato disposizione di rimandare il voto dell'aula".

Il motivo sono gli "incoraggianti segnali" in arrivo da Mosca e Damasco: "Assad ha ammesso di possedere le armi chimiche ed ha perfino detto che aderirà alla Convenzione che mette al bando le armi chimiche" accettando il piano russo che prevede la consegna all'Onu di tutti i gas velenosi.

Si tratta per Obama di "un'iniziativa che può rimuovere la minaccia delle armi chimiche senza ricorrere all'uso della forza". E' una svolta di cui Obama rivendica il merito per "la minaccia concreta dell'attacco militare" e "per il colloquio avuto con Putin a San Pietroburgo". Da qui la richiesta al Congresso di "rimandare il voto sull'uso della forza" e l'invio del Segretario di Stato John Kerry a Ginevra "per incontrare la controparte russa".

Obama vuole dare tempo alla diplomazia e, d'intesa con Parigi e Londra, sceglie di aspettare anche il rapporto degli ispettori Onu sulla Siria. Ma la minaccia militare resta immediata: "Ho ordinato alle forze armate di mantenere la pressione su Assad" al fine di spingerlo verso un disarmo chimico "reale, veloce e verificabile".

L'appello ai deputati dissidenti, democratici e repubblicani, è così di "fare fronte alle responsabilità di leadership internazionale che l'America ha, in quanto ancora della sicurezza globale". Nel finale Obama cita Franklin Delano Roosevelt, ribadisce l'opposizione alle guerre e anche la volontà di dimostrare che l'America sente la responsabilità di agire contro il tiranno di Damasco.


2. GAFFE E RIPENSAMENTI COSÌ OBAMA SI È RITROVATO NELLA TRINCEA DIPLOMATICA
Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera"

Con un ennesimo cambio di rotta di quella che i suoi critici chiamano ormai «l'accidental diplomacy», la diplomazia casuale della Casa Bianca, Barack Obama apre al negoziato con Russia e Siria per lo smantellamento dell'arsenale chimico di Damasco. Dopo aver chiesto al Congresso di appoggiare la sua decisione di punire militarmente il regime di Assad per l'uso dei gas, giudicando ormai chiusa la strada di una soluzione politica, adesso è lo stesso presidente Usa a sollecitare un rinvio del voto parlamentare, peraltro già deciso, almeno dal Senato: bisogna dar tempo alla diplomazia di esplorare gli spazi negoziali improvvisamente riemersi.

Una situazione abbastanza inedita quella che si vive in queste ore a Washington con un presidente «guerriero riluttante» fin qui costretto a prendere in considerazione una rappresaglia militare che in cuor suo non vorrebbe scatenare: un leader che coi suoi ripensamenti degli ultimi giorni ha spiazzato non solo gli analisti, ma anche i suoi più stretti collaboratori. A cominciare da Susan Rice e Samantha Power, le due donne che nell'Amministrazione rappresentano l'ala interventista dei cosiddetti «falchi umanitari».

Obama le ha volute al suo fianco rispettivamente come capo dei consiglieri per la sicurezza e ambasciatrice Usa all'Onu. Ma dopo il nulla di fatto al G20 di San Pietroburgo ha lasciato che la Power dichiarasse esaurita la fase dei tentativi negoziali, mentre ancora ieri a Washington la Rice rilanciava in un convegno l'opzione militare proprio mentre uno dei suoi vice, Tony Blinken, dava un primo segnale d'apertura alla proposta russa dalla sala stampa della Casa Bianca.

Prima che Obama mostrasse, nelle sei interviste televisive concesse nella serata di lunedì, di credere davvero nella possibilità di aprire una nuova pista diplomatica, la Washington politica si era chiesta a lungo se la sortita mattutina di John Kerry che aveva innescato l'apertura russa («se i siriani consegnassero le loro armi chimiche non ci sarebbe più bisogno di attaccare») fosse o meno una delle celebri «gaffe» del segretario di Stato.

Dopo il «sì» di Obama a un nuovo tentativo negoziale, la domanda è diventata un'altra: un nuovo sforzo diplomatico sotterraneo era già in corso da giorni? A sostegno di questa tesi viene ritirato fuori un articolo del quotidiano israeliano Haaretz che diversi giorni fa aveva descritto un possibile scenario negoziale molto simile a quello che si sta delineando in queste ore.

Lo stesso Obama ha dato la sensazione che qualcosa si fosse mosso già nei giorni scorsi quando ha detto, nell'intervista alla Cnn , che parlando con Putin a margine dei lavori del G20 di San Pietroburgo aveva avuto la sensazione che anche il presidente russo fosse favorevole a levare di mezzo le armi chimiche.

La verità, probabilmente, è diversa e meno suggestiva: il presidente russo, desideroso comunque di evitare una campagna di bombardamenti dagli effetti imprevedibili per il suo protetto Assad, ha capito che anche con un'apertura parziale avrebbe aiutato Obama a togliersi da una situazione difficilissima sul fronte interno, dove i sondaggi segnalano una crescente ostilità dell'opinione pubblica alla rappresaglia annunciata dalla Casa Bianca.

E dove, col passare dei giorni, i consensi di deputati e senatori all'opzione militare è andato scemando anziché crescere. Del resto è lo stesso Obama a segnalare il suo disagio quando dice di capire l'ostilità della gente a un nuovo intervento militare e confessa che anche Michelle è contraria.

Quando Kerry ha lasciato intravvedere uno spiraglio, Putin ha fatto il suo passo, convinto che anche un'apertura ancora priva delle necessarie garanzie sarebbe stata accolta con interesse da Obama e dalle cancellerie europee. Così è stato, anche se le prime schermaglie sulla proposta di risoluzione Onu avanzata dai francesi fanno intendere che un accordo non è affatto dietro l'angolo.

Ma la palla è intanto tornata nel campo di Obama che ha dovuto riscrivere gran parte del solenne messaggio alla nazione pronunciato nella notte dalla Casa Bianca. In un momento cruciale per la ridefinizione del ruolo internazionale degli Stati Uniti, il presidente si è trovato nell'inedita condizione di dover parlare allo stesso tempo di guerra e di diplomazia: più spazio per un ultimo tentativo di soluzione pacifica della questione dell'arsenale chimico (non certo della guerra civile siriana) accompagnata da una verifica stringente dell'effettiva distruzione di bombe e razzi al sarin, ma anche il mandato per lo «strike» militare da lanciare in caso di fallimento dell'opzione politica.

Chi oggi si chiede se quella di russi e siriani sia solo una manovra dilatoria deve prendere atto che, anche se continua a invocare il sì del Parlamento a un intervento militare e a spiegare agli americani che solo la credibilità della minaccia di attacco ha spinto la Siria ad ammettere di disporre di armi chimiche e a dichiararsi disposta a distruggerle, oggi anche Obama ha bisogno di prendere tempo.

Quanto? È quello che dovrà essere chiarito nei prossimi giorni, anche perché tra poco più di un mese il Tesoro resterà di nuovo con le casse vuote: il Congresso, oggi tutto concentrato sulla Siria, dovrà presto passare a discutere di aumento del tetto del debito pubblico. Pena una ricomparsa dello spettro del «default» della superpotenza.

 

 

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