FISCO PER FIASCHI: DITE A BEFERA CHE ALLE STAR NON PIACE PAGARE LE TASSE

Gianfrancesco Turano per "l'Espresso"

Ai prossimi Internazionali d'Italia, che debuttano sabato 11 maggio, Flavia Pennetta avrà un problema in più. Oltre alle avversarie e a un polso che la tormenta da mesi, la brava tennista dovrà fare i conti con i detective dell'Agenzia delle entrate. Gli uomini di Attilio Befera puntano al Grande Slam contro sportivi e artisti dalla fiscalità esitante. È il caso della campionessa brindisina che si divide fra la residenza in Svizzera, la base per gli allenamenti a Barcellona e un 730 da dannata della terra in patria.

Per le prossime settimane sono in vista nuove manovre di recupero crediti contro le celebrities. Le vanno a prendere una ad una, senza il clamore scenico di anni fa, quando Luciano Pavarotti veniva trascinato in tribunale per saldare il conto a quota 25 miliardi di lire e Valentino Rossi dichiarava nemico del popolo in conferenza stampa a Pesaro dopo avere scucito 35 milioni di euro.

Lo stile Befera è diverso da quello dei suoi predecessori. Oggi i Marlowe dell'Erario presentano il conto e propongono un accordo assai bonario: pochi maledetti e subito in cambio di discrezione. È andata così con il nazionale brasiliano Kakà che ha chiuso il contenzioso per le sue stagioni al Milan a quota 2 milioni di euro, come già rivelato da "l'Espresso".

Il sistema del pagamento senza gogna è stato adottato con altri calciatori come l'ex juventino David Trezeguet e il capitano del Torino Rolando Bianchi, vittima di distrazione al tempo della sua breve apparizione in Premier League con la maglia del Manchester City. Per il dolo, ci sono le Procure della Repubblica e lì è più difficile evitare la pubblicità negativa. Insomma, il pm non ammette ignoranza. L'Agenzia delle Entrate a volte sì, purché si paghi. Le tariffe sono umane perché in tempi di vacche magre bisogna venirsi incontro.

I bersagli recenti della campagna di recupero crediti fiscali hanno un denominatore comune che si chiama "Star company". È la holding personale inventata per gli uomini di spettacolo e adottata dagli atleti via via che gli sport professionistici diventavano parte integrante dello show business con guadagni sempre più alti non solo dagli ingaggi ma soprattutto dai contratti di sponsorizzazione e dalle campagne pubblicitarie.

I furbetti del palloncino hanno organizzato mini-holding controllate da loro, in modo di cedere a se stessi i diritti di sfruttamento della propria immagine con un vantaggio fiscale evidente. Una società di capitali è tassata al 27,5 per cento più Irap. Una persona fisica, dopo vent'anni di slogan berlusconiano meno tasse per tutti, è salita a quota 45 per cento.
Visto che le controversie sulle star company si impantanavano in ricorsi legali infiniti, il fisco ha deciso di applicare alcuni principi semplici.

Se la società del divo è una scatola vuota (shell company), ossia se è stata creata solo per la cessione e la gestione dei diritti di immagine, scatta la sanzione. Nel caso di Kakà si è stabilito che la sua Tamid sport & marketing esisteva esclusivamente per incassare i soldi delle campagne pubblicitarie per i biscotti Ringo.

Altri casi si sono conclusi senza conseguenze. Le capogruppo personali di Alessandro Del Piero (Edge), di Gigi Buffon (Buffon & co) o di Andrea Pirlo (Ap sport service) hanno stati patrimoniali rimpolpati da immobili, partecipazioni finanziarie in società quotate come la Zucchi per il capitano della Nazionale o, a volte, attività industriali come l'acciaio per lo juventino Pirlo.

È sorto qualche dubbio che il settore abbigliamento casual, molto alla moda nei primi anni Duemila, fosse una forma di copertura, ma la bancarotta di Bobo Vieri e Cristian Brocchi con la Baci&Abbracci ha, paradossalmente, segnato un punto in favore della buona fede fiscale. Qualche incertezza di interpretazione in più si può avere su società come la Numberten di Francesco Totti che, oltre ai diritti d'immagine, presta generici servizi di consulenza, comunicazione e organizzazione eventi.

Ad agevolare la situazione dei campioni italiani che si esibiscono in Italia c'è il fatto che, per loro, anche la star company non comporta vantaggi economici ma solamente finanziari. Infatti, al momento della distribuzione al socio dei dividendi accumulati, scatta un conguaglio che grosso modo comporta l'allineamento dell'aliquota. Se lo sportivo è vicino a fine carriera, il vantaggio finanziario è marginale al contrario di un atleta giovane che può lucrare gli interessi anche per dieci anni prima di distribuirsi i profitti e pagare il conguaglio all'erario.

La questione al centro della battaglia tra fisco e star restano i redditi dei divi che si dicono residenti all'estero o controllano società oltre il confine.
Fabio Capello si è inguaiato così, con i 16 milioni di euro di incassi della sua lussemburghese Sport 3000, amministrata da Achille Severgnini, rampollo della famiglia che gestisce la Finsev, la società tornata di recente all'attenzione delle cronache con la pubblicazione degli elenchi delle società offshore su questo giornale.

L'attuale commissario tecnico della Russia ha chiuso con una transazione da 5 milioni di euro. Il manuale dell'esterovestizione, la moda di piazzare la star company oltre i confini lanciata da Diego Armando Maradona con esiti infausti, presenta molte versioni. Negli annuari riservati degli specialisti ha fatto epoca in senso positivo la pianificazione fiscale di Ronaldo, non il portoghese impomatato ma il Fenomeno di Rio. Sul versante opposto, sfiorava la circonvenzione di incapace il tax planning di Alberto Tomba, la Bomba, tutto made in Switzerland. Per i mancati versamenti degli anni Novanta, il campione di slalom ha dovuto pagare 7,5 miliardi di lire.

«Ormai all'esterovestizione ci credono solo gli sportivi sudamericani più sprovveduti», dice un esperto dietro garanzia di anonimato: «I fiduciari svizzeri, poi, è vero che chiedono poco, il 10 per cento fisso sul tuo risparmio fiscale. Ma il cliente si carica il 100 per cento del rischio. Se vuoi fare le cose bene, devi andare a Londra o a New York».
Tuttavia evadere è umano, troppo umano. E quasi mai un grande talento artistico o sportivo si accompagna a lauree e master in diritto tributario.

Così chi è colto in fallo nel quadro RW del Modello Unico, dove si dichiarano i proventi di investimenti e attività finanziarie estere, viene colpito con sanzioni fra il 5 e il 25 per cento se il paese estero non è nella lista nera dei paradisi fiscali. Diversamente, la multa raddoppia e varia fra il 10 e il 50 per cento.

Chi non ha fiducia nel fiduciario svizzero o londinese spesso si appoggia al suo agente. Molti procuratori sportivi forniscono servizi fiscali che includono sponde all'estero. Il vero problema per l'Agenzia delle entrate è inseguire i passaggi successivi al pagamento di una fattura. Se quei soldi finiscono in un paradiso offshore, si tenta di tassarli attraverso la cooperazione internazionale, che funziona in modo ancora troppo discontinuo. Può aiutare, in queste circostanze, l'intervento della magistratura.

Uno dei casi finiti in mano al giudice penale è quello della monegasca P&P Sport Management della famiglia Pastorello, una vera dinastia del calcio italiano con il padre Gianbattista presidente del Verona ai tempi del controllo occulto di Calisto Tanzi, la moglie e i figli Andrea e Federico. Proprio il figlio maggiore Federico, agente Fifa e rappresentante di molti calciatori da Nazionale come Giuseppe Rossi (Fiorentina) e Antonio Candreva (Lazio), è finito sotto inchiesta per un'evasione da 18 milioni di euro per servizi e prestazioni svolte in Italia ma dichiarati a Montecarlo.

Che poi Federico Pastorello sia il procuratore preferito del presidente più amico di Befera, il laziale Claudio Lotito, è un paradosso molto italiano. La caccia al possibile ladro erariale ha inquadrato anche bersagli molto grossi e piuttosto esotici come George Clooney e Gwyneth Paltrow. Purtroppo per gli esattori, la pretesa era infondata. In primo luogo, le campagne pubblicitarie dei due attori per Martini riguardavano un marchio dal nome italiano acquisito vent'anni fa dal gruppo multinazionale Bacardi.

In secondo luogo, non erano girate in Italia. Infine, anche se allora Clooney trascorreva una parte dell'anno in una villa sul lago di Como, era difficile sostenere che usufruisse dei benefici del welfare italiano. Così non c'è stato verso di applicare ai due divi di Hollywood l'articolo 53 della Costituzione per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Fra l'altro, gli Stati Uniti basano il prelievo fiscale sul criterio della cittadinanza. Cioè tassano i loro cittadini qualunque reddito abbiano prodotto in qualsiasi angolo del globo, salvo accordi bilaterali con altri Stati e arbitrati internazionali su posizioni individuali dove il temuto Irs (Internal revenue service) statunitense è abituato a giocare la parte del leone nei confronti degli omologhi stranieri.

Per gli italiani vige ancora la residenza ma anche qui le strategie di attacco anti-evasione si sono affinate. Una volta valeva la regola dei 183 giorni: risiedeva all'estero chi ci viveva per almeno metà anno. Per non farsi scappare gli sportivi itineranti, come tennisti o piloti, il principio è stato corretto con il centro degli interessi: la famiglia o gli amici. Se si trovano in Italia, il divo deve pagare le tasse in Italia. Può costare cara persino l'iscrizione al circolo delle bocce o, come nel caso di Valentino Rossi, una bicchierata di troppo con i compagni di scuola al bar di Tavullia. Il fisco è davvero uno sport violento.

 

 

FLAVIA PENNETTApavarotti lucianoVALENTINO ROSSIKAKAtrezeguetBrocchicosmopolitanEu2004 christian vieritotti foto di stasi gmt capello fabioDIEGO ARMANDO MARADONA jpegtomba alberto1GEORGE CLOONEY

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