abbate veltroni

INCUBO “UOLTER” - IL MARCHESE FULVIO ABBATE: “DI FRONTE AL CRASH RENZIANO DEL 4 MARZO QUALCUNO DIRÀ: DAI, TORNIAMO A VELTRONI, È LUI IL NOSTRO AMULETO, IL NOSTRO BRACCOBALDO - QUALCHE SERA FA CI HA PENSATO SCALFARI, SEBBENE 94ENNE, AD AUSPICARE IL RITORNO DI VELTRONI. IGNORANDO CHE A QUELL’ETÀ SAREBBE ASSAI PIÙ GIUSTO TRASCORRERE LE GIORNATE SU YOUPORN…”

fulvio abbate

Fulvio Abbate per "Il Dubbio"

 

Dove si narra del certo, certissimo, ritorno - ahimè trionfale - di Veltroni sul mucchietto di imminenti ceneri di Renzi e del renzismo, quasi W fosse il salvavita di un centrosinistra che sempre si è sottratto - intendiamoci, per non dare adito a cattivi pensieri, per il bene della ditta - al “franco dibattito” sulle ragioni della sconfitta, l’ennesima già preventivata. Ma adesso proviamo noi a ragionare, magari partendo da molto lontano.

 

Walter Veltroni

Al funerale di Berlinguer, a Roma, nel giugno del 1984, in piazza San Giovanni, Giancarlo Pajetta, eminente figura comunista, pronunciò l’orazione funebre per onorare il segretario generale scomparso, e a un certo punto, a mo’ di chiosa catartica, aggiunse: “I comunisti, quando si asciugano le lacrime, lo fanno per guardare più lontano“.

 

Quel giorno c’ero, puntino tra la folla, le bandiere, gli striscioni, i gonfaloni, in piedi davanti alla Scala Santa, stavo lì sebbene non fossi più iscritto al Pci da anni, nonostante mi trovassi fra quelli che, qualche anno prima, nel ’77, si erano issati sul lato opposto della barricata rispetto a un Lama e allo stesso Berlinguer, un leader già in crisi perfino in casa propria, in via Botteghe Oscure.

fulvio abbate

 

Stavo lì pensando anche ogni male possibile di D’Alema che, intervistato sulle predilezioni giovanili, aveva addirittura detto che nella musica rock “c’era qualcosa di indubbiamente satanico”, e altrettanto di Veltroni, piccolo esporatore Tobia di una Fgci perbenista, i figli complessati dei grandi del partito. La mia adesione riguardava semmai la cosiddetta “ala creativa” del movimento, e, come forse ho solo accennato, non avevo neppure un’idea particolarmente esaltante di Berlinguer, anzi, mi risuonava ancora nelle orecchie il giudizio che ne avevo ascoltato da Guttuso.

 

Mi trovo a Palermo, a casa di una baronessa pittrice, quando a un certo punto la padrona di casa a botta fredda domanda all’amico: “Renato, ci dici com’è Berlinguer?”. Guttuso, tira il fiato, il sospiro lungo e ponderato della diplomazia, e dopo un po’, guardando negli occhi l’amica, pronuncia così: “Francesca, è uno che lavora tanto, veramente tanto”.

WALTER VELTRONI

  

Perdonate l’inciso, ma serve a far intuire che senza immergersi nella complessità del tempo e della storia, senza un briciolo di ontologia del passato non si comprende nulla di ciò che è stato, e ancor meno dei cataclismi che saranno, che ancora si annunciano.

 

Ora, volendo seguire il suggerimento dell’allora dolente Giancarlo Pajetta, desidero guardare oltre, asciugarmi le lacrime e osservare un punto lontano di un tempo politico non ancora fra noi, eppure imminente. E’ un dovere per me, che faccio lo scrittore, dunque non è davvero affar mio lavorare come un galoppino alla costruzione del consenso, già, per quello c’è da tempo Jovanotti.

 

FULVIO ABBATE A TEATRO - FOTO DI MONICA CILLARIO

Da persona che aspira a essere libera, siccome non voglio assistere all’ennesima ipocrita mistificazione la notte del prossimo 4 marzo, giorno della sicura disfatta elettorale di un’ipotetica sinistra, dicò subito ciò che immagino avverrà. Di fronte al crash renziano, assisteremo al sollevarsi della medesima cortina fumogena per garantire la fuga dei responsabili già vista al tempo del tonfo del PD di Veltroni: non una parola da parte del diretto interessato, anzi un invito a tacere per rispetto e pudore, non una riflessione sulle “ragioni della sconfitta“, e questo perché “non bisogna prestare il fianco” al pessimismo...

 

i bambini sanno documentario di walter veltroni

Poi c’è il discorso del “vado in Africa”, cui per pudore preferiamo non soffermarci.  Riepilogando, guardando al mattino del giorno dopo il 4 marzo, davanti all’ammazzacaffè del renzismo con la sua Boschi, con il suo convoglio di bella gente antropologicanente varia ed eventuale, gli stessi che, lo ricordiamo, erano già presenti nel tinello di Enrico Letta (lo so perché sono stato allo zoo di “Vedrò”, il circoletto che quest’ultimo aveva messo in piedi per costruire il proprio consenso, dove c’erano davvero già tutti, ad esclusione della sinistra) qualcuno, dimenticando i pregressi, dirà: dai, torniamo a Veltroni, è lui il nostro uomo, il nostro amuleto, la nostra unica vera salvezza, il nostro Braccobaldo.

 

fulvio abbate

E quello, davanti ai messi imploranti giunti lì per convincerlo, farà la parte di chi si fa pregare e poi, come nella celebre barzelletta di Hitler richiamato a gran voce dall’inferno, dirà: “Però questa volta cattivi, eh?”.

 

Dicevo appunto che mi sto asciugando le lacrime per guardare oltre, più lontano, profondo orrore per il ricatto della cosiddetta “vocazione maggioritaria”, perché uno scrittore, un artista non lavora alla costruzione del consenso per un Veltroni, a meno che non si chiami Paolo Virzì o Francesca Archibugi, i cui film talvolta, come nei fumetti di Wiz, sembrano assomigliare all’omino che urla sotto il castello del Re e di Sir Brandolph: “E’ mezzanotte e tutto va bene!”. 

 

walter veltroni (2)

Sera fa ci ha pensato addirittura Eugenio Scalfari, sebbene 94enne, ad auspicare il ritorno di Veltroni. Ignorando che a quell’età sarebbe assai più giusto, come ha commentato la mia amica Caterina, filosofa emigrata a Londra, assai più sensato trascorrere le giornate su YouPorn. Ma Scalfari, ospite della Berlinguer a “Cartabianca” su Raitre, ha auspicato, occhi lucidi, proprio il ritorno di Veltroni, lo ha indicato come l’unico possibile bostik per un possibile futuro del centrosinistra.

 

Sul cadavere di Renzi della Boschi e dei loro “fratelli”, anche in senso massonico, a un certo punto isseranno come fosse Vasco Rossi proprio Veltroni, diranno poi, sputando sulla prova certa della sua mediocrità, è lui l’unico che può dare un seguito a un cartello progressista, e lo faranno soprattutto muovendo da un principio di continuità antropologica, sarà Roma a trionfare, la Roma degli ex figiciotti, la Roma che insieme a Malagò ha pianto per la mancata candidatura alle Olimpiadi del 2000 e rotti, la Roma che si ritrova ai tavoli del bar ristorante “Settembrini” nel quartiere Prati, dove si decide cosa ne sarà della Rai, un luogo che, come abbiamo già scritto, basta osservarlo da fuori per sognare subito di arruolarsi nelle Waffen SS, ricostituite ovviamente per l’occasione.

FULVIO ABBATE INCINTO

 

Un istante dopo, metti, “Il Foglio” di Claudio Cerasa plaudirà alla bella pensata di Barbapapà, così, sul deserto della memoria, i più solerti andranno perfino per strada con dei grandi ventagli per cacciare lontano l’eco del deserto stesso lasciato proprio da chi adesso viene indicato come nuovo Lancillotto, cercheranno di allontanare perfino l’immagine campale dello sfacelo lasciato a Roma, la città dove il nome di tal Luca Odevaine, già vicecapo di gabinetto di Veltroni in Campidoglio, risuonava un tempo come fosse il risolutore d’ogni problema dell’Urbe, la Roma della schiuma del consenso spettacolare di cui adesso si contano ancora i cocci.

 

RENZI BOSCHI

Contento Scalfari, contenti loro. Li guarderemo, braccia conserte, in attesa dell’ennesimo tonfo ancora una volta in assenza di una “franca riflessione sulle ragioni dell’ennesima sconfitta”, dall’altro lato della strada. O forse sarà compito dei nostri figli.

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