BELPIETRO NON CI STA - “BERLUSCA VA A PROCESSO ACCUSATO DI AVER RIVELATO NOTIZIE COPERTE DA SEGRETO D’UFFICIO, MA IL “SEGRETO” ERANO LE TELEFONATE TRA FASSINO E CONSORTE CHE FA PENSARE CHE I DS FOSSERO IMPLICATI NELLA SCALATA DI UNIPOL A BNL - CHE FINE HA FATTO LA RICHIESTA D’ARRESTO PER PENATI? - NON SARÀ CHE, COME HA AMMESSO ANCHE VIOLANTE NEL CASO DI TANGENTOPOLI, PER UNA VOLTA AVEVA RAGIONE IL BANANA A PARLARE DI MAGISTRATI POLITICIZZATI?”...

Maurizio Belpietro per "Libero"

Paradossi italiani: ancora non abbiamo capito se dietro la scalata di Unipol alla Bnl c'era una tangentona rossa, ma in compenso, con l'accusa di aver rivelato le strane mire dei compagni sulle banche, Silvio Berlusconi è già a giudizio. Lo ha deciso ieri il gup di Milano, il quale ha accolto la richiesta avanzata dalla Procura, che - sia detto per inciso - era stata invitata da un altro giudice a processare l'ex premier. Risultato: tra qualche mese avremo il piacere di vedere il Cavaliere alla sbarra, questa volta nelle inedite vesti di chi ha contribuito a rivelare notizie coperte da segreto d'ufficio.

Lui, l'uomo che più si è battuto contro le intercettazioni, imputato di averle abusivamente diffuse. Niente di nuovo invece per quel che riguarda gli strani giri di soldi attorno al Pd lombardo. Nonostante siano passati anni e l'inchiesta sia stata trasferita da una procura all'altra, ad oggi è buio pesto su tutta la storia. Per capire come mai all'improvviso la Provincia di Milano decise di farsi un'autostrada a spese del contribuente, indebitandosi fin sopra i capelli, bisognerà attendere ancora un po'.

Non si sa quanto: forse un anno o forse una vita. Sta di fatto che finora sia la richiesta d'arresto di Filippo Penati, ex plenipotenziario di Bersani in Lombardia, sia la domanda di sequestro dei beni della società che avrebbe pagato le tangenti sono state respinte dal gup. Insomma, gente che va a processo e gente che la sfanga. Un po' come successe vent'anni fa con Mani pulite, operazione spettacolare di cui ricorre tra poche settimane l'anniversario.

Tutto partì da un amministratore socialista preso con le mani nel sacco, anzi nel water, dato che l'uomo tentò di far sparire le mazzette tirando lo sciacquone. Il «mariuolo» (così lo definì Bettino Craxi) non ce la fece e quella fu la fine della Prima Repubblica. O meglio, di un pezzo della Prima Repubblica perché, a dar retta ad alcuni protagonisti, i pm non volevano abbattere tutto il Palazzo, ma solo quello che a loro non garbava. Vale a dire Dc e Psi, come ha recentemente spiegato uno che se ne intende, ossia l'editore di Repubblica, l'ingegner Carlo De Benedetti, già noto alle cronache giudiziarie per le tangenti alle Poste.

Che l'operazione fosse politica lo dà a intendere con due decenni di ritardo anche Luciano Violante, l'uomo che per anni è stato ritenuto il leader del partito delle toghe. L'altra sera su La7, di fronte a uno sghignazzante Gad Lerner, l'ex presidente della Camera se n'è uscito con una specie di mea culpa.

«Non avevamo capito che era in gioco un cambio di sistema politico. Pensavamo che passassero i cadaveri dei nostri nemici e passavano invece dei pezzi del nostro ordinamento costituzionale». Il riferimento è chiaro: da Tangentopoli l'equilibrio di poteri su cui si reggeva la nostra fragile Repubblica è uscito a pezzi e ancora oggi fatica a riprendersi. Per Violante, alla magistratura fu assegnato un ruolo politico e ora non si riesce a farla rientrare nei limiti.

Di quanto sia impazzita la maionese in toga lo dimostra proprio la vicenda che fa da sfondo al rinvio a giudizio di Berlusconi. Il caso, sarà bene ricordarlo, risale a sette anni fa, quando la compagnia di assicurazione rossa, Unipol, diede la scalata alla Banca nazionale del lavoro. Poco prima che questo avvenisse, la provincia di Milano, amministrata da un uomo dei Ds, il Filippo Penati di cui si diceva, decise di comprare da Marcellino Gavio una quota della società autostradale Serravalle, regalando all'imprenditore una plusvalenza di 180 milioni di euro, con un danno erariale stimato dalla Corte dei conti in 80 milioni.

Fu solo incapacità di un amministratore pubblico o altro? I magistrati ad oggi non l'hanno
scoperto, stupisce però il fatto che proprio mentre Penati fa la brillante operazione che consente a Gavio di mettersi in tasca una montagna di milioni, lo stesso imprenditore compra una quota della Bnl, dando man forte a Unipol nella scalata.

L'operazione, con tutti i suoi intrecci e i suoi pasticci, venne a galla alla fine del 2005 quando, pochi giorni dopo Natale, il Giornale di cui ero direttore pubblicò in esclusiva un'intercettazione telefonica tra il numero uno di Unipol, Giovanni Consorte, e il numero uno dei Ds, Piero Fassino.

«Abbiamo una banca», diceva entusiasta al telefono l'attuale sindaco di Torino. Che i Ds fossero i registi della scalata o perlomeno che facessero di tutto perché questa andasse a buon fine lo si scoprì poi ascoltando le telefonate ancor più esplicite fra Consorte e Massimo D'Alema. Un filone che però la magistratura non riuscì ad approfondire. Un po' perché il giudice che voleva andare fino in fondo fu improvvisamente trasferito. Un po' perché il Parlamento europeo negò l'utilizzo delle intercettazioni di D'Alema.

E dopo sette anni, anziché capire se i vertici del principale partito di sinistra misero le mani nelle faccenda e ci furono finanziamenti occulti, assisteremo all'ennesimo processo a Berlusconi, accusato di aver ascoltato la telefonata tra Fassino e Consorte e, forse, di aver contribuito alla sua diffusione. Insomma, siamo in pieno rito Ambrosiano. Citando Violante, quanti pezzi del nostro ordinamento costituzionale dovremo veder passare prima che qualcuno faccia qualcosa?

 

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