LUIGI MANCONI RACCONTA CON GRANDE DIGNITÀ COME VIVE SENZA VEDERCI PIÙ: “NON SO CHE FACCIA ABBIA OBAMA MA PROVO A RIDERE DEL MIO HANDICAP’’

Carlo Verdelli per "La Repubblica"

«Per esempio, io non so che faccia abbia Obama. Nel 2008, quando venne eletto, non ero già più in grado di memorizzarne il volto. Direi che ha una testa ovaloide. È così?». Mentre parla, non ti centra, guarda un po' altrove. «Anche Giovinco, per dire, eroe della mia epopea sportiva. È venuto dopo, e io non so immaginare i tratti del suo viso, né riconoscerne movenze e traiettorie sul campo».

«Tutto quello che non ho filmato nel cervello prima della mia patologia, mi è visivamente sconosciuto ». Luigi Manconi, 65 anni, sardo di Sassari, senatore del Pd e fresco presidente della Commissione per i Diritti Umani, oltre a un altro sacco di cose, dalla sociologia alla militanza politica fino a una conoscenza dottorale in musica leggera e popolare, non vede praticamente da 7 anni e non ne ha mai parlato. Per pudore, forse, o per volontà di rimozione.

Resta il fatto che, anche se la definizione clinica è "ipovedente", per la Asl è un "cieco civile", con un «residuo visivo non superiore a un ventesimo» all'occhio sinistro e zero al destro. In un parlamento di non larghissime vedute, lui è l'unico a non vederci sul serio. Ma non porta il bastone, né gli occhiali scuri, gira spesso da solo, attraversa la strada come un pazzo. Non che la cecità per Manconi sia un segreto da celare, ma neanche un handicap da esibire.

«Lo dico a quelli con cui entro in contatto, molti lo apprendono all'improvviso. Di solito, mi danno una pacca lieve sul braccio e mormorano: scusa, non sapevo. Scusa di che? Io sono più cose: politico, docente universitario, padre di tre figli. E c'è Bianca (Berlinguer, direttore del Tg3, ndr). In più ho anche un handicap. Anche, capisce. Handicap che, oltretutto, posso affrontare con i privilegi di classe e di censo che comporta la mia condizione sociale».

Suona un telefono. Le assistenti che gli danno sei occhi, le due Valentine (Calderone e Brinis) e Cecilia (Aldazabal), sono fuori dalla stanza per discrezione. Lui raggiunge disinvolto l'apparecchio e risponde, poi si sdraia con la faccia sulla tastiera per comporre un numero.

Sulla scrivania, fogli di appunti scritti con grafia enorme. Per leggerli, li schiaccia contro l'angolo dell'occhio sinistro, l'unico da cui filtra un micro raggio di visione. Poi torna a sedersi e mi dice: «Lei porta una camicia con le maniche rimboccate, un gilet, visto che non sembra tipo da panciotto, ed è un peccato, e ha un blocco a spirale. Il viso non so». Vede delle ombre? «No, è come se fosse tutto sfumato».

Quando tutto ha cominciato a sfumare?
«Già dal 2005 sapevo del glaucoma, che si sommava a una forte miopia, a un distacco della retina, e a tanti altri guai dei miei occhi. Ma non immaginavo un peggioramento tanto rapido».

Ricorda il momento del non ritorno?
«Ho una totale, e addirittura suicida ignoranza del mio corpo, e non riesco a collocare con precisione quel momento. So però che è irreversibile. Allo stato attuale, neanche le staminali, dice il professor Mario Stirpe che mi ha in cura, potrebbero invertire il processo».

Quando le accadde? Non può non esserci l'istante preciso in cui la vista svanisce e te ne rendi spaventosamente conto.
«Novembre 2007, credo. Ero sottosegretario alla Giustizia e alla Camera dovevo dare il parere del governo su emendamenti e mozioni. Da un po' mi ero accorto che la situazione del mio visus si stava aggravando, così avvisai il presidente di turno, Giorgia Meloni, che avrei potuto avere delle difficoltà.

Cominciai, ma da lì a poco mi accorsi di non riuscire a leggere neanche mezza riga. Mi venne in soccorso un funzionario, suggerendomi le parole, ma io faticavo a ripeterle. L'opposizione prese a rumoreggiare. Quando la protesta si fece più vivace, mi rivolsi all'aula: "Per un problema di salute non sono più in grado di proseguire".

Da quel momento non sono stato più capace di leggere un testo, né gli appunti per i miei interventi, che curavo maniacalmente. Decifro a malapena qualche riga, scritta a mano in grandi caratteri».

Lei, una persona che vive di parole scritte, colpita al cuore della passione. Come reagì?
«Qualcuno mi considera un depresso. Ed è possibile che questo sia un tratto del mio carattere che allora si accentuò per un breve periodo e che ancora, occasionalmente, si manifesta. Per converso, ho accentuato il mio iperattivismo e l'agitazione psicomotoria di tante iniziative, parole, scritti».

Conseguenze pratiche?
«Giro con un fascio di contanti come un camorrista perché non posso usare il bancomat. Io che sono titolare di una moltitudine di cravatte, e che me ne regalai una di Bardelli il giorno del mio ventesimo compleanno, facendo una follia, appena espulso dalla Cattolica di Milano e senza una lira, adesso corro rischi terribili con gli abbinamenti. Mi aiuta spesso mia figlia Giulia, ma prima era una scelta gelosamente mia».

Passando a mutazioni più traumatiche?
«Prima leggevo 6 quotidiani al giorno in due ore. Li ho sostituiti con 6 rassegne
radiofoniche più tre gr. Comincio alle 6.30 con Radio1 e vado avanti fino alle 9.30 con
Terza pagina di Radio3; in mezzo, l'imperdibile Massimo Bordin su Radio Radicale.

Va molto peggio con i libri: mi vengono letti i capitoli essenziali di quelli scientifici, sociologia e politologia, e ne apprendo il succo. Ma la narrativa e la poesia sono la vera privazione. Mi hanno appena regalato un Meridiano di Amelia Rosselli. So che è lì e non posso farci niente.

E abbiamo un bellissimo quadro tutto bianco di Gianni Dessì: per vederlo, devo toccarlo con le mani. Va un po' meglio con i film: mi attacco il lettore dvd all'occhio sinistro e qualcosa riesco a seguire. Con Django di Tarantino sarà dura perché c'è tanta azione, ma con Amour di Hanneke, meravigliosamente parlato da Trintignant ed Emmanuelle Riva, è andata bene».

Mai pensato di ricorrere a strumenti che agevolano la vita dei ciechi?
«Ho 65 anni, trovo più faticoso apprendere nuove tecniche piuttosto che farmi aiutare all'interno di "A buon diritto", che ho fondato nel 2001 e dove mi sento a casa ».

L'Italia è un Paese che sta attento ai ciechi?
«Vent'anni fa, lessi un'indagine Istat che quantificava il numero dei portatori di handicap. Ci scrissi un saggio: Cinque milioni di disabili e il predellino del tram di Milano.
Scalini altissimi, un ostacolo insormontabile per portatori di handicap, donne incinte o con passeggino. Oggi, prendere un treno, specie se regionale, comporta le stesse difficoltà».

In Senato invece...
«C'è un cortile interno, che avrò fatto centinaia di volte. Mi ero scordato che nel mezzo si trovano due gradini e così, tornatoci quest'anno, sono incespicato pericolosamente. Ho segnalato a un assistente parlamentare che, per legge, su tutti i gradini va tracciata una striscia nera. Si è scusato, l'ha fatta mettere e mi ha raccontato di quando anche Andreotti, coi suoi passettini, rischiò di cadere proprio lì, ma lui, l'assistente, si buttò e lo raccolse al volo, cosa che gli valse la prima nota di merito».

Lei ha una vita politica insolita. A parte l'antica militanza in Lotta Continua, è stato portavoce dei Verdi, con dimissioni date immediatamente dopo la sconfitta alle Europee del '99, sottosegretario di Prodi, senza essere parlamentare, fino al 2008. In mezzo c'è l'attività di "A buon diritto", che, tra l'altro, ha reso pubblico lo scandalo di Stefano Cucchi. Come mai, dopo 12 anni, il Pd l'ha candidata?
«Non spetta a me dirlo. Credo che qualcuno si sia ricordato che già nel '95 presentai il primo disegno di legge sulle unioni civili e nel '96 il primo sul testamento biologico. Persino in politica, talvolta questo può contare».

Che differenze nota con le altre legislature che ha vissuto?
«Oggi, sia perché un qualche rinnovamento in effetti c'è stato sia perché le larghe intese hanno modificato il quadro, tutto appare più difficilmente riconoscibile e classificabile: le dislocazioni politiche e le opzioni individuali. Persino la distinzione tra maggioranza e opposizione risulta più sfumata».

E sul piano personale?
«Politicamente io mi definirei un radicale di sinistra estrema, tuttavia sempre interessato a trattare le questioni intrattabili e, se possibile, a governarle. Comunicando assiduamente, parlando, incontrando. Per esempio, passando molto tempo nei settori dell'aula dove siedono i miei avversari politici.

Ecco, se devo discutere di libertà religiosa col valdese Malan, del Pdl, o di unioni civili con Bondi, devo prima chiedere all'assistente se si trovano in aula, poi farmi accompagnare da loro o chiedere loro di raggiungermi; e così con 5 Stelle».

Qualche volta riesce a ridere della sua disgrazia?
«Spesso. Pensi che il primo giugno ho presentato a Cremona, in piazza del Duomo, il mio
La musica è leggera, con Maurizio Maggiani, altro ipovedente. Al termine, lui dice: io e Luigi non possiamo salutarci con un "ci vediamo un'altra volta", perché non ci vediamo proprio.

Poi attacca una canzone popolare del primo Novecento, che fa così (Manconi si mette a cantarla, con bella voce bassa ben temperata, ndr):
"Son cieco e mi vedete /devo chieder la carità/ho 4 figli, piangono,/ del pane non ho da dar.//. Noi anderemo a Roma / davanti al papa e al re / noi grideremo ai potenti / che la miseria c'è"».

Come fa a prenderla così?
«La Chiesa parla di grazia di stato, un qualcosa che ti offre risorse impensabili per affrontare circostanze particolarmente dolorose o comunque gravose. L'ho sperimentata su di me e, per esempio, sui familiari di vittime di ingiustizie atroci. Ilaria Cucchi ha avuto il bene di questa grazia, nonostante tutto».

 

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