OBAMA, NESSUNO PIÙ TI AMA - NON BASTAVANO I TEA PARTY, ANCHE LA BASE DEMOCRATICA, I LIBERAL, I NERI E GLI ISPANICI LO ACCUSANO DI AVER FALLITO CONTRO LA CRISI - NEL PAESE LA FIDUCIA È AI MININI STORICI E MOLTI EX AMICI (COME SPIKE LEE, ROBERT REDFORD E MICHAEL MOORE) LO STANNO SCARICANDO - ALL’ECONOMIA IN COMA SI AGGIUNGE IL PANTANO-IRAQ DA CUI GLI USA NON RIESCONO A USCIRE (IL RITIRO TOTALE PROMESSO PER IL 2011 È SFUMATO)…

1 - TUTTI CONTRO OBAMA, BOCCIATO DA OLTRE METÀ DEGLI AMERICANI
Alessandra Farkas per il "Corriere della Sera"

Barack Obama? «L'Eletto spacciato», ovvero «un presidente da un solo mandato». La sua squadra alla Casa Bianca? «Ripugnante». Nel suo ultimo, graffiante fondo sul New York Times intitolato «One and Done», la nota editorialista Maureen Dowd non lesina insulti nei confronti del presidente di cui un tempo era simpatizzante, se non proprio fan.

«Obama è affetto da Illusione da discorso», maligna la Dowd, descrivendo la patologia come «l'idea di poter scendere dalla montagna, leggere dal teleprompter (suggeritore elettronico, ndr), compiere l'incantesimo magico con le sue parole e poi scalare di nuovo la montagna mentre noi comuni mortali corriamo a fare ciò che lui ha proclamato».

Alla vigilia dell'attesissima presentazione, giovedì prossimo al Congresso, del piano della Casa Bianca per rilanciare la crescita e l'occupazione, il presidente Usa deve fare i conti col muro di disapprovazione dei suoi stessi elettori. Almeno tre sondaggi indicano come, per la prima volta, più della metà dei cittadini bocciano la sua azione sul fronte dell'economia e del lavoro.

Secondo il rilevamento di Wall Street Journal/Nbc solo il 44% degli americani approva il suo operato come presidente (per la prima volta da quando è entrato alla Casa Bianca il 51% lo disapprova apertamente), mentre per il 73% degli interpellati il Paese sta andando nella direzione sbagliata. Analogo il risultato del sondaggio Washington Post/Abc, (che indica come il livello di pessimismo nell'opinione pubblica Usa non sia mai stato così alto dalla crisi finanziaria del 2008) e di quello svolto dal sito Politico insieme alla George Washington University, da cui emerge come il numero degli elettori convinti che Obama stia guidando il Paese nella direzione errata è balzato al 72%, 12 punti percentuali in più rispetto al mese di maggio.

A dargli addosso, oggi, non sono solo i conservatori del Tea Party. «È la base stessa del partito democratico che si sta ribellando», spiega Adam Green, cofondatore del Progressive change campaign committee che nel 2008 si schierò con lui. In quella che i media hanno già ribattezzato «l'estate dello scontento democratico», Obama è stato attaccato da tutte le lobby progressiste che tre anni fa lo spedirono alla Casa Bianca.

I liberal non hanno digerito i suoi compromessi col Gop sul tetto al debito pubblico per prorogare le esenzioni fiscali ai super-ricchi dell'era Bush. I sindacati sono furiosi su come sta gestendo la crisi occupazionale e minacciano di boicottare la prossima convention democratica in segno di protesta. I Latinos gli rinfacciano il numero record di deportazioni di illegali sotto la sua amministrazione. Gli afroamericani si sentono traditi dal tasso record di disoccupazione che li penalizza.

Un'atmosfera sempre più avvelenata che il settimanale New Yorker ha sintetizzato in una recente vignetta dove politici e vip di entrambi i partiti fanno la fila per colpire con la palla l'effigie di Obama. Tra i nuovi detrattori c'è il guru clintoniano James Carville («tra il discorso di Obama e il dibattito repubblicano sceglierei quest'ultimo») e David Letterman («per la festa del Labor Day Obama farà tutto ciò che gli ordinano i repubblicani»).

Persino Hollywood gli sta voltando le spalle e star quali Robert Redford, Spike Lee e Michael Moore non perdono l'occasione per accusarlo di aver tradito le loro cause. Se Obama non saprà riconquistare questi elettori, è probabile che la cupa previsione della Dowd si avvererà. «È difficile che alle prossime elezioni i liberal voteranno per un candidato repubblicano - afferma Cornell West, docente a Princeton e suo ex ammiratore oggi deluso - ma se non apriranno il portafoglio per contribuire alla campagna, i giorni di Obama sono davvero contati».

2 - IRAQ, OBAMA IMPIGLIATO NELLA "GUERRA INFINITA"
Vittorio Zucconi per "la Repubblica"

Alla commemorazione dell´11 settembre ci sarà anche il convitato che nessuno avrebbe voluto: la guerra infinita. L´addio alle armi di Barack Obama dovrà aspettare ancora. Lo scollamento dalla palude irachena nella quale Bush la impantanò continuerà anche oltre la scadenza promessa dal candidato Obama.

Resteranno soltanto poche migliaia di soldati americani, tre o quattro mila, come supporto logistico e come istruttori per il presunto esercito iracheno, molti meno degli almeno 15 mila indicati dal Pentagono come indispensabili per puntellare il governo centrale. Ma la guerra senza fine lanciata sulle rovine delle Due Torri continua e l´annuncio liberatorio che il presidente avrebbe voluto fare alla nazione domenica, per il decimo anniversario dell´11 settembre, non potrà esserci in piena onestà.

Otto anni e mezzo sono trascorsi dal giorno di marzo 2003 dello «shock and awe», dell´operazione spavento e timore piovuta dal cielo su Bagdad per aprire la strada alla marcia delle truppe e alla caduta di Saddam Hussein e tre dalla promessa elettorale di un ritiro totale. La guerra che avrebbe dovuto pagare per se stessa, grazie al petrolio iracheno, che sarebbe dovuta durare pochi mesi, nelle previsioni dei suoi propagandisti allucinati, continua, assottigliandosi in una dissolvenza estenuante senza mai davvero finire. Un´altra prova, semmai ce ne fosse stato bisogno, che le guerre sono sempre molto più facili da cominciare che da finire.

A che cosa possano realmente servire quei tre o quattro mila uomini e donne nelle uniformi della US Army che il ministro della Difesa, Leon Panetta, ha rivelato resteranno «in country», al fronte nel Paese, non è del tutto chiaro. Come forza militare, in una nazione più estesa dell´Italia, sono irrilevanti. Come struttura di controllo e di sicurezza non potranno fare molto, in una terra ancora puntualmente scossa dalla guerra fra bande, clan, etnie, sette spesso telecomandante dall´esterno, dove la situazione dell´ordine è precaria e non migliora.

E come presenza politica serviranno soltanto a rammentare agli iracheni, siano essi curdi, sunniti o sciiti, che una completa autonomia non è ancora stata raggiunta. Formalmente, il numero e la qualità della presenza americana saranno soggetti all´approvazione del governo di Bagdad, dice Panetta, quel governo "democratico" che si è allineato sulle posizioni di politica estera dell´Iran e della Siria del dittatore Assad. Ma è evidente a tutti che la decisione finale è stata già presa dal solo governo che conta, quello che sta a Washington.

I generali americani, con il comandante del contingente al fronte, Lloyd Austin in particolare, sono descritti come «furiosi» per questa riduzione troppo frettolosa e drastica dalla forza di 45 mila oggi dispiegata. Ma non potranno far altro che mettersi sull´attenti e ubbidire all´autorità politica, come già fece il comandante dell´invasione, il generale Tommy Franks, costretto dal Pentagono e dal ministro Rumsfeld a lanciare un´invasione con molti meno effettivi di quanti sarebbero serviti per controllare davvero l´Iraq dopo la prevedibile vittoria sulle forze di Saddam.

Né sono più felici di loro tutti quegli elettori che avevano creduto alle promesse elettorali di un ritiro completo.Sarà dunque una di quelle decisioni di compromesso che segnano, e affliggono, la presidenza Obama, nella loro capacità di scontentare un po´ tutti volendo accontentare un po´ tutti. Tra la paura di restare in forze, come gli chiedevano i generali, e la paura di sentirsi accusare in campagna elettorale di avere «perduto l´Iraq» soltanto per mantenere la parola, la Casa Bianca ha scelto di lasciare un piede nella palude, per considerazioni simboliche più che strategiche.

L´eredità di queste guerre infinite è qualcosa che il successore di Bush ha dovuto assumersi, trascinando un peso finanziario, umano e politico del quale non riesce a sbarazzarsi, senza rischiare la solita accusa di essere un «progressista soft».
Lo soccorre, ma soltanto in piccola misura, la coltre di indifferenza che ormai ha coperto, nell´opinione pubblica, questa avventura cominciata male e proseguita peggio, come ha ammesso coraggiosamente l´ex direttore del New York Times, Bill Keller, nel suo primo commento da opinionista libero da responsabilità editoriali.

Keller, che era stato uno dei cosiddetti «falchi liberal», delle ex colombe che nell´emozione del dopo 11 settembre si scoprirono «falchi senza riuscire a crederci», ha scritto che «l´operazione Iraqi Freedom è stata un colossale disastro». Ma è più facile per un giornalista o un commentatore onesto voltare la pagina e chiudere il libro dei propri abbagli che per il presidente di una nazione confessare che l´addio alle armi, per un comandante in capo, è infinitamente più straziante.

 

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