LA SINISTRA FORCAIOLA ALL'ATTACCO DEL COLLE – MA QUANTO GODE L’ELEFANTINO FERRARA NELL’ASSISTERE ALLO SPETTACOLO DEI GIORNALONI (DA REPUBBLICA AL CORRIERE ALLA STAMPA) CHE SI GUARDANO BENE DAL DIFENDERE LA MAGISTRATURA CHE PER ANNI HANNO IDOLATRATO E COPERTINATO PERCHE’ AZZANNAVA BERLUSCONI? – ORA CON IL CASO NAPOLITANO-MANCINO LA MUSICA E’ CAMBIATA…

Giuliano Ferrara per "Il Giornale"

L'opinione di destra ha molte ragioni per detestare Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica. È stato eletto senza i voti di chi aveva perso con piccolo margine nel 2006, la sua formazione è quella di un dirigente comunista che non ha mai rotto con la tradizione del Pci finché questo fu in vita, il suo aplomb di gentiluomo napoletano colto e di establishment ne fa un campione anche antropologico di un'Italia dei partiti e delle forze costituite, spesso chiamate poteri forti, che è l'opposto simmetrico dello spirito libertario, conservatore, populista e spesso caciarone dei movimenti nati con Forza Italia nel '94, alleati all'epoca con due forze, il Msi e la Lega, che non hanno apprezzabili sintonie (per essere eufemistici) con ciò che rappre­senta personalmente e culturalmente il ca­po dello Stato.

Ma la sinistra? Il fenomeno più rilevante di questa fase è l'attacco ventre a terra da sinistra, in parti­colare dall'avanguardia forcaiola, contro il Quirinale. Di Pietro, poliziotto e magistrato che si offrì tanti anni fa a Massimo D'Alema e a Romano Prodi per una cavalcata avventurosa, all'insegna della spregiudicatezza demagogica e della eternizzazione del manipulitismo, dice che era meglio Craxi di Napolitano, e Craxi è la personalità politica oggetto della spietata demonizzazione della Procura di Milano, il Diavolo in persona fatto fuori con mezzi inqui­sitoriali ma simbolicamente mai distrutto. Napolitano peggio del Diavolo.

Di Pietro aggiunge che il presidente della Repubblica «briga per celare la verità» sulla trattativa tra lo Stato e la mafia, e la «trattativa» è una gigantesca bolla mediatico-giudiziaria costruita dal rito palermitano per infangare i carabinieri che arrestarono Totò Riina, per promuovere testimoni come il pataccaro e calunniatore figliolo del grande mafioso Vito Ciancimino, e per insinuare che dietro le stragi e l'assassinio di Borsellino c'era qualcosa che assomigliava molto all'incipiente formazione e debutto politico del partito di Berlusconi.

Roba forte, e piuttosto immonda, che va a finire nel trattamento sprezzante e calunnioso di chi rappresenta l'unità nazionale, scelta azzardata ma perseguita da ambienti che sanno come condizionare e intimidire parti consistenti della cultura e della politica di sinistra.

Ma non basta. L'attacco a Napolitano procede anche su altri fronti. Un pezzo rilevante del Pd, probabilmente maggioritario, non ha mai digerito l'operazione Mario Monti, l'exrettore della Bocconi e commissario europeo nominato da Berlusconi che fu nominato senatore a vita e incaricato di succedere al Cav dopo le sue tumultuose dimissioni nel mezzo dell'emergenza finanziaria.

Il Pd di Bersani e dei suoi scalpitanti giovani neolaburisti avrebbe voluto votare e prendersi a caldo lo scalpo dell'avversario in ritirata strategica, per così dire; avrebbe voluto un governo Monti concertatore con la Cgil su pensioni e misure per il lavoro e molto altro, un esecutivo-ponte senza troppe pretese e con la chiara inclinazione ad aprire la strada alla rivincita dell'asse tra «progressisti e moderati», come dice l'uomo che non vuole smacchiare i giaguari.

Oggi il Pd aspetta con prudenza tattica che si levi di mezzo, con Napolitano e con la pretesa di andare avanti nel solco del programma o agenda che prende il nome da Monti, il principale ostacolo a una presa del potere elettorale garantita da idee non molto efficaci né originali di ritorno al vecchio dirigismo industrialista e di censura demagogica della libertà d'impresa, il tutto in uno scenario di guerra ideologica alla finanza cattiva, arcinemica dei neosocialisti. Se tanto ci dà tanto, abbiamo molti motivi per riflettere sul settennato di Napolitano.

Dopo la vittoria di Berlusconi e del Pdl, con Bossi, nel 2008, la bussola del Quirinale non è stata orientata, come dicono i più ferrigni detrattori del Quirinale, ad accorciare la vita del governo eletto, a rinfocolare lo spirito d'assalto di pm infoiati dal caso Ruby e di fogli forcaioli fatti di intercettazioni e altri romanzacci neri di spionaggio, pedinamento e distruzione dalla privacy. Il Quirinale non si è limitato a difendere pro domo sua e con grinta, contro la favolistica antimafiosa degli estremisti politicizzati della Procura di Palermo e i loro portavoce di palazzo, la prerogativa di un presidente che non può essere dato in pasto ai cani con intercettazioni pubblicamente esibite che ledono la sua inviolabilità giudiziaria per atti che sono parte della sua funzione.

Napolitano - ed è qui che casca l'asino del suo essere diventato bersaglio di una certa cultura faziosa di sinistra - ha difeso finché ha potuto, e come ha potuto, la ragionevole prerogativa di un premier che aveva vinto le elezioni e aveva diritto di governare in nome della sovranità popolare il Paese.

Quando questo non fu più possibile, Napolitano ha indirizzato le cose verso una scelta «terza», di stampo europolitico e di continuità istituzionale, senza indulgere alla grottesca e insinuante pretesa di un repulisti antiberlusconiano o di una svolta genericamente «progressista ». Ecco perché il presidente di sinistra oggi è detestato da gran parte della sinistra mediatico-giudiziaria, che gli indirizza colpi a ripetizione, in genere colpi bassi.

 

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