IL CARROCCIO DERAGLIA - E DOPO L’ICTUS, BOSSI RISCHIA IL COCCOLONE PER LE TANGENTI A QUEL PIRELLONE DI BONI - SULLA STORIA DI ROMA LADRONA I LEGHISTI C’HANNO CAMPATO PER VENT’ANNI (GRIDANDO ALLA FORCA PER I POLITICI DI TANGENTOPOLI) E ADESSO SI RITROVANO COL CAPPIO AL COLLO - AL-FANO SFANCULA LA LEGA PER LE PROSSIME AMMINISTRATIVE APRENDO A PD E TERZO POLO PER UNA LEGGE ELETTORALE AD ALTA SOGLIA DI SBARRAMENTO, MARONI ALLA GUIDA DEI BARBARI SOGNA GIÀ LA LEADERSHIP DEL PARTITO…

Marco Damilano per "l'Espresso"

Era una mattina di marzo, il 5 marzo 1993 quando i militanti della Lega fecero irruzione nell'aula del tribunale di Milano dove si stava celebrando il processo per direttissima a Enzo Carra, l'ex portavoce della Dc trascinato in manette davanti alle telecamere. "Li vidi entrare, a guidarli c'era Umberto Bossi in persona. Andò a stringere la mano al pm, Antonio Di Pietro. E gridò: "Avanti, andate avanti".

Gridarono tutti, prima di uscire", racconta Carra, oggi deputato dell'Udc. Pochi giorni dopo, un oscuro deputato del Carroccio, Luca Leoni Orsenigo, sventolò un cappio nell'aula di Montecitorio. Mentre l'ideologo del movimento, il raffinato politologo Gianfranco Miglio, teorizzava la legittimità del linciaggio per i politici inquisiti: "Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola. Questa classe politica di criminali cerca di salvarsi. Non capiscono più quello che pensa la gente, l'opinione pubblica. Non li vogliono vedere solo in catene, con le manette. Ma con la casacca dell'ergastolano".

Bastano queste immagini a spiegare perché il presidente del Consiglio regionale lombardo Davide Boni non è solo l'ennesimo politico indagato dalla magistratura per una storia di corruzione. Per la Lega rappresenta molto di più: la fine di una parabola politica cominciata vent'anni fa, quando i barbari di Pontida invasero per la prima volta i banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama dopo le elezioni del 1992, le ultime della Prima Repubblica, e portarono la rivoluzione nel cuore di Roma ladrona. E ora eccoli lì: allo sbando, senza alleati, senza strategia, divisi al loro interno, trattati da tangentisti. E senza un leader al comando, da molto tempo.

Marzo deve essere il più crudele dei mesi, per la Lega. Perché la crisi di oggi comincia in una notte di quasi primavera, quella tra il 10 e l'11 marzo del 2004, quando Bossi fu trasportato all'ospedale di Cittiglio e poi a Varese in pericolo di vita. Lo stesso rischio che il Senatur ha evocato l'altra sera in un comizio a Piacenza per il premier Mario Monti: "Il Nord lo farà fuori". E ora è facile immaginare che in realtà il fondatore della Lega intendesse scaricare su Monti la sua paura.

Ora che la Tangentopoli lombarda si abbatte sul Carroccio, nelle stesse ore in cui il segretario del Pdl Angelino Alfano trova il coraggio di fare la prima mossa da leader e scarica i padani ("L'alleanza è finita. Alle amministrative gli elettori ci vedranno senza la Lega"), diventa inevitabile pensare che il Senatur volesse parlare di se stesso e della sua creatura. Mai come oggi con un futuro incerto.

Eppure la nascita del governo Monti, tre mesi fa, fu salutata dallo stato maggiore leghista con sollievo. Una liberazione dall'ingombrante amico di Arcore che aveva spaccato in due il partito di Bossi, tra filo-governativi (Bossi, Roberto Calderoli, Marco Reguzzoni, il cerchio magico) e movimentisti, capeggiati per paradosso dal ministro più alto in grado di tutti, Roberto Maroni.

La Grande Coalizione, con il Pdl in maggioranza con Pd e Terzo Polo, sembrava aver magicamente restituito al Carroccio la libertà d'azione e l'unità interna. Mani libere, per schiaffeggiare a piacimento gli ex compagni di strada del Pdl, anche sulla questione morale, dopo aver ingoiato per un decennio le leggi ad personam: "Ne arrestano uno al giorno", aveva commentato sarcasticamente il Leader sui guai giudiziari dei formigoniani in Lombardia. E ritrovata amicizia con il discepolo prediletto Bobo Maroni, suggellata dal cambio alla guida del gruppo di Montecitorio, via Reguzzoni, detestato dall'ex ministro dell'Interno, dentro il veneto Giampaolo Dozzo.

In questi cento giorni i leghisti si sono scatenati, per rappresentare nelle aule parlamentari il volto dell'unica opposizione al governo Monti. Contestazioni, cartelli, la deputata-operaia Emanuela Munerato che parla alla Camera indossando la sua tuta da lavoro. Una svolta un po' troppo rapida per essere credibile, come fanno notare tutti i principali studiosi del pianeta Lega, a partire da Ilvo Diamanti (il primo ad interpretare il fenomeno già negli anni Ottanta) e Roberto Biorcio (analista della "terza ondata" del Carroccio, l'ultima generazione).

Anche perché il paradosso leghista è che in tutto il continente i temi-simbolo del movimento bossiano, la polemica con l'Europa di Bruxelles (la mitica Forcolandia, una delle più brillanti trovate linguistiche del Senatur), la sicurezza, sono il cuore del dibattito politico (per esempio nella campagna elettorale francese).

Mentre in Italia la Lega ha smarrito il suo quid, la capacità quasi animalesca di fiutare e di intercettare prima degli altri gli umori popolari: la paura degli immigrati, lo spaesamento delle periferie e dei piccoli centri nell'era della globalizzazione, l'incubo di perdere il lavoro e le sicurezze sociali che aveva spinto il Carroccio a sfondare elettoralmente nelle fabbriche del Nord in cassa integrazione, tra gli iscritti alla Fiom. Era il sindacato del territorio, la Lega. Spregiudicata, mutevole, indecifrabile.

E ora, invece, annega nel politichese. Veste a Roma i panni dell'opposizione al governo Monti, intesa come posizione geografica. E al Nord discetta di alleanze e di amministrative, senza trovare pace al suo interno. Vedi il caso del sindaco di Verona, il super-popolare Flavio Tosi, intenzionato a candidarsi il 6 maggio con una lista che porta il suo nome, tra le contestazioni del vertice padano.

A far deragliare il Carroccio arriva ora lo scandalo del Pirellone, che ferisce e fa infuriare il popolo dei militanti, quelli che affollano le feste estive nelle valli bergamasche. Simbolo di un'omologazione al modello berlusconiano che nessuna camicia verde può occultare. Nessun fazzoletto, nessuna pernacchia bossiana può nascondere che la Lega in vent'anni di alleanza con Silvio Berlusconi si è trasformata in un partito in tutto uguale agli altri.

Con un'unica differenza, almeno fino a questo momento: la conduzione personale, familistica di un partito che non fa un congresso neppure nominale da dieci anni. Il Capo non si tocca, nonostante il malumore dei colonnelli sia ormai incontenibile. E il figlio Renzo, designato alla successione, appare sempre di più come il rampollo di qualche dinastia mediorientale, destinata a essere spazzata via dalle rivolte.

Pochi mesi fa, a fine estate, Maroni aveva provato a sfidare la famiglia Bossi. In tandem con il delfino del Pdl Alfano che si era fatto vedere alla Berghem Fest di Alzano Lombardo con un braccialetto verde al polso. Sembrano passati anni luce: oggi l'ex ministro della Giustizia prova a fare un passo in direzione del partito dei moderati con Pier Ferdinando Casini e per testimoniare la sua buona volontà rompe in modo definitivo l'alleanza con la Lega.

E ragiona con il Pd e con il Terzo Polo di una legge elettorale con un'alta soglia di sbarramento nazionale che rappresenta una minaccia mortale per la Lega. Mentre il suo amico Maroni, l'ex ministro dell'Interno, con la sua corrente, è invischiato in una sequenza di congressi provinciali, beghe locali, espulsioni e scomuniche.

Il congresso nazionale annunciato nei mesi scorsi si allontana sempre di più. Ma anche se Maroni dovesse finalmente concludere la sua lunga marcia alla conquista della leadership potrebbe ritrovarsi con un guscio vuoto. Un partito di barbari che non sognano più. E che rischiano la sopravvivenza politica. Oltre che il carcere.

 

UMBERTO BOSSI DAVIDE BONI roberto maroniANGELINO ALFANO Leghisti e il tiro alla fune Leghisti al tiro alla fune Il leghista Leoni Orsenigo contro i ladroni da impiccare nel ROBERTO CALDEROLI MARCO REGUZZONI

Ultimi Dagoreport

francesco milleri andrea orcel carlo messina nagel donnet generali caltagirone

DAGOREPORT - COSA FRULLA NELLA TESTA DI FRANCESCO MILLERI, GRAN TIMONIERE DEGLI AFFARI DELLA LITIGIOSA DINASTIA DEL VECCHIO? RISPETTO ALLO SPARTITO CHE LO VEDE DA ANNI AL GUINZAGLIO DI UN CALTAGIRONE SEMPRE PIÙ POSSEDUTO DAL SOGNO ALLUCINATORIO DI CONQUISTARE GENERALI, IL CEO DI DELFIN HA CAMBIATO PAROLE E MUSICA - INTERPELLATO SULL’OPS LANCIATA DA MEDIOBANCA SU BANCA GENERALI, MILLERI HA SORPRESO TUTTI RILASCIANDO ESPLICITI SEGNALI DI APERTURA AL “NEMICO” ALBERTO NAGEL: “ALCUNE COSE LE HA FATTE… LUI STA CERCANDO DI CAMBIARE IL RUOLO DI MEDIOBANCA, C’È DA APPREZZARLO… SE QUESTA È UN’OPERAZIONE CHE PORTA VALORE, ALLORA CI VEDRÀ SICURAMENTE A FAVORE” – UN SEGNALE DI DISPONIBILITÀ, QUELLO DI MILLERI, CHE SI AGGIUNGE AGLI APPLAUSI DELL’ALTRO ALLEATO DI CALTARICCONE, IL CEO DI MPS, FRANCESCO LOVAGLIO - AL PARI DELLA DIVERSITÀ DI INTERESSI BANCARI CHE DIVIDE LEGA E FRATELLI D’ITALIA (SI VEDA L’OPS DI UNICREDIT SU BPM), UNA DIFFORMITÀ DI OBIETTIVI ECONOMICI POTREBBE BENISSIMO STARCI ANCHE TRA GLI EREDI DELLA FAMIGLIA DEL VECCHIO RISPETTO AL PIANO DEI “CALTAGIRONESI’’ DEI PALAZZI ROMANI…

sergio mattarella quirinale

DAGOREPORT - DIRE CHE SERGIO MATTARELLA SIA IRRITATO, È UN EUFEMISMO. E QUESTA VOLTA NON È IMBUFALITO PER I ‘’COLPI DI FEZ’’ DEL GOVERNO MELONI. A FAR SOBBALZARE LA PRESSIONE ARTERIOSA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SONO STATI I SUOI CONSIGLIERI QUIRINALIZI - QUANDO HA LETTO SUI GIORNALI IL SUO INTERVENTO A LATINA IN OCCASIONE DEL PRIMO MAGGIO, CON LA SEGUENTE FRASE: “TANTE FAMIGLIE NON REGGONO L'AUMENTO DEL COSTO DELLA VITA. SALARI INSUFFICIENTI SONO UNA GRANDE QUESTIONE PER L'ITALIA”, A SERGIONE È PARTITO L’EMBOLO, NON AVENDOLE MAI PRONUNCIATE – PER EVITARE L’ENNESIMO SCONTRO CON IL GOVERNO DUCIONI, MATTARELLA AVEVA SOSTITUITO AL VOLO ALCUNI PASSI. PECCATO CHE IL TESTO DELL’INTERVENTO DIFFUSO ALLA STAMPA NON FOSSE STATO CORRETTO DALLO STAFF DEL COLLE, COMPOSTO DA CONSIGLIERI TUTTI DI AREA DEM CHE NON RICORDANO PIU’ L’IRA DI MATTARELLA PER LA LINEA POLITICA DI ELLY SCHLEIN… - VIDEO

andrea orcel gaetano caltagirone carlo messina francesco milleri philippe 
donnet nagel generali

DAGOREPORT - BUM! ECCO LA RISPOSTA DI CALTAGIRONE ALLA MOSSA DI NAGEL CHE GLI HA DISINNESCATO LA CONQUISTA DI GENERALI - L’EX PALAZZINARO STA STUDIANDO UNA CONTROMOSSA LEGALE APPELLANDOSI AL CONFLITTO DI INTERESSI: È LEGITTIMO CHE SIA IL CDA DI GENERALI, APPENA RINNOVATO CON DIECI CONSIGLIERI (SU TREDICI) IN QUOTA MEDIOBANCA, A DECIDERE SULLA CESSIONE, PROPRIO A PIAZZETTA CUCCIA, DI BANCA GENERALI? - LA PROVA CHE IL SANGUE DI CALTARICCONE SI SIA TRASFORMATO IN BILE È NELL’EDITORIALE SUL “GIORNALE” DEL SUO EX DIPENDENTE AL “MESSAGGERO”, OSVALDO DE PAOLINI – ECCO PERCHÉ ORCEL HA VOTATO A FAVORE DI CALTARICCONE: DONNET L’HA INFINOCCHIATO SU BANCA GENERALI. QUANDO I FONDI AZIONISTI DI GENERALI SI SONO SCHIERATI A FAVORE DEL FRANCESE (DETESTANDO IL DECRETO CAPITALI DI CUI CALTA È STATO GRANDE ISPIRATORE CON FAZZOLARI), NON HA AVUTO PIU' BISOGNO DEL CEO DI UNICREDIT – LA BRUCIANTE SCONFITTA DI ASSOGESTIONI: E' SCESO IL GELO TRA I GRANDI FONDI DI INVESTIMENTO E INTESA SANPAOLO? (MAGARI NON SI SENTONO PIÙ TUTELATI DALLA “BANCA DI SISTEMA” CHE NON SI SCHIERERÀ MAI CONTRO IL GOVERNO MELONI)

giorgia meloni intervista corriere della sera

DAGOREPORT - GRAN PARTE DEL GIORNALISMO ITALICO SI PUÒ RIASSUMERE BENE CON L’IMMORTALE FRASE DELL’IMMAGINIFICO GIGI MARZULLO: “SI FACCIA UNA DOMANDA E SI DIA UNA RISPOSTA” -L’INTERVISTA SUL “CORRIERE DELLA SERA” DI OGGI A GIORGIA MELONI, FIRMATA DA PAOLA DI CARO, ENTRA IMPERIOSAMENTE NELLA TOP PARADE DELLE PIU' IMMAGINIFICHE MARZULLATE - PICCATISSIMA DI ESSERE STATA IGNORATA DAI MEDIA ALL’INDOMANI DELLE ESEQUIE PAPALINE, L’EGO ESPANSO DELL’UNDERDOG DELLA GARBATELLA, DIPLOMATA ALL’ISTITUTO PROFESSIONALE AMERIGO VESPUCCI, È ESPLOSO E HA RICHIESTO AL PRIMO QUOTIDIANO ITALIANO DUE PAGINE DI ‘’RIPARAZIONE’’ DOVE SE LA SUONA E SE LA CANTA - IL SUO EGO ESPANSO NON HA PIÙ PARETI QUANDO SI AUTOINCORONA “MEDIATRICE” TRA TRUMP E L'EUROPA: “QUESTO SÌ ME LO CONCEDO: QUALCHE MERITO PENSO DI POTER DIRE CHE LO AVRÒ AVUTO COMUNQUE...” (CIAO CORE!)

alessandro giuli bruno vespa andrea carandini

DAGOREPORT – CHI MEGLIO DI ANDREA CARANDINI E BRUNO VESPA, GLI INOSSIDABILI DELL’ARCHEOLOGIA E DEL GIORNALISMO, UNA ARCHEOLOGIA LORO STESSI, POTEVANO PRESENTARE UN LIBRO SULL’ANTICO SCRITTO DAL MINISTRO GIULI? – “BRU-NEO” PORTA CON SÉ L’IDEA DI AMOVIBILITÀ DELL’ANTICO MENTRE CARANDINI L’ANTICO L’HA DAVVERO STUDIATO E CERCA ANCORA DI METTERLO A FRUTTO – CON LA SUA PROSTRAZIONE “BACIAPANTOFOLA”, VESPA NELLA PUNTATA DI IERI DI “5 MINUTI” HA INANELLATO DOMANDE FICCANTI COME: “E’ DIFFICILE PER UN UOMO DI DESTRA FARE IL MINISTRO DELLA CULTURA? GIOCA FUORI CASA?”. SIC TRANSIT GLORIA MUNDI – VIDEO