Alberto Mattioli per la Stampa - Estratti
Tutti d'accordo, patti chiari, les jeux sont faits? Ma nemmeno per sogno. Alla Scala va in scena un colossale pasticcio all'italiana dalle imprevedibili conseguenze politico-legal-musicali. Ieri mattina, consiglio d'amministrazione convocato per ratificare l'accordo sui vertici trovato dal sindaco Beppe Sala e dal ministro Gennaro Sangiuliano.
In sintesi, questo: alla scadenza del mandato, nel febbraio del '25, che precede di poco il suo settantesimo compleanno, arrivederci e grazie al sovrintendente francese Dominique Meyer, rimpiazzato da quello della Fenice di Venezia, Fortunato Ortombina; nel '27, staffetta fra il direttore musicale uscente, Riccardo Chailly, e quello entrante, Daniele Gatti; in mezzo, nomina di un direttore artistico e di un direttore generale.
Invece, a sorpresa, su proposta del consigliere Alberto Meomartini il CdA ha convenuto all'unanimità di chiedere una proroga di un anno, dunque fino al '26, per Meyer e Chailly; poi si farà posto a Ortombina e Gatti. Ma un voto non c'è stato, dunque la decisione è solo un accordo di massima: carta non canta, nemmeno alla Scala.
Tutto, raccontano, è nato da un giro di telefonate di Giovanni Bazoli, 91 anni, primo banchiere italiano, uomo forte del CdA, padre della compagna di Sala, estimatore di Meyer, amico di Chailly e soprattutto da sempre contrario a ogni ingerenza romana sulla Scala, che è ancora il sancta santorum dei poteri forti milanesi. Quello di Bazoli è fortissimo: i consiglieri si sono allineati, compresi i due rappresentanti del ministro, peraltro nominati dai suoi predecessori. Però si apre così una serie di domande più difficili dei quiz di Turandot. Lo Statuto della Scala non prevede proroghe di mandati: si possono fare lo stesso?
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E poi: nel '26 Ortombina di anni ne compirà 66, quindi c'è il rischio che non possa completare neanche un mandato "pieno". Senza contare la situazione imbarazzante in cui viene messa la Fenice, con un sovrintendente in partenza ma che per ora resta lì, e soprattutto due grandi artisti come Chailly e Gatti, prigionieri in questo limbo di incertezza.
Al ministero non l'hanno presa bene. Il ministro Sangiuliano si dice «rispettosissimo delle prerogative del CdA», ma che «si era convenuta una decisione diversa». Il suo sottosegretario, Gianmarco Mazzi, che per i teatri si sta impegnando molto, e è più esplicito: «Un mandato ha un termine, proprio per favorire il ricambio e il rinnovamento. Valuteremo degli approfondimenti tecnici da effettuare nell'esercizio dei poteri di vigilanza», ed en passant ricorda gli «83 milioni circa» erogati dal ministero alla Scala negli ultimi due anni.
I due veri sconfitti sono i contraenti del patto sconfessato dal CdA. Uno è Sala, che si consola dicendo che «dal mio punto di vista c'è l'importante risultato di tenere il Consiglio unito», sì, ma unito contro le sue scelte. E comunque si è capito che alla Scala non comanda il sindaco di Milano, semmai suo suocero. L'altro è Sangiuliano che avrebbe volentieri esibito un "suo" sovrintendente in una città governata dalla sinistra (e comunque Ortombina non è affatto un uomo "d'area": lo hanno bollato così i giornali perché alla Fenice ha scritturato Alvise Casellati figlio di, ma in realtà è un tecnico di valore, e basta).
Certo che quando Sangiuliano si mette all'opera gli vanno male tutte: sconfitto al San Carlo, sconfitto alla Scala. Urge novena a Gennaro, il santo, però.
Poi che in tutto questo la Scala abbia bisogno di certezze e progetti, evidentemente non interessa a nessuno.
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