Maurizio Assalto per “la Stampa”
franco battiato e pino massara fetus
«L’unità primordiale è spazio e saggezza», «il senso della nostra esistenza terrena è quello di crescere, diventare esseri completi, e ritornare all’unità». C’è la vertigine metafisica, lama tibetani che camminano sulle acque e escono incolumi dalle fiamme, che nascono al centro di un fiore di loto e muoiono ridendo, le storie di Padmasambhava e di Milarepa, le voci di rinpoche buddisti ma anche di teologi cristiani, monaci benedettini, fisici quantistici e psichiatri, raccolte dall’Italia fino a Kathmandu, nel cofanetto di libro + dvd che Franco Battiato intitola Attraversando il Bardo, ossia Sguardi sull’aldilà (Bompiani, pp. 69, € 22).
Nella concezione buddista il Bardo è lo stato intermedio tra la vita passata e la vita futura, quando per l’anima separata dal corpo si tratta di scegliere in quale forma di esistenza reincarnarsi, e dal karma di quelle precedenti dipende se la scelta sarà in meglio o in peggio. Cantante, compositore, regista, autore di opere liriche, pittore, artista proteiforme, in questo lavoro Battiato sollecita a fondo la sua indole mistico-sincretistica, per interrogarsi sul senso della morte, che è correlativamente anche il senso della vita. «Noi non siamo mai morti, e non siamo mai nati».
La morte come passaggio, come ritorno a casa. Quali letture sono alla base di queste idee?
battiato pubblicita divano busnelli
«Ma la letteratura non basta... Ho iniziato nel 1970 con i mistici indiani e da lì in avanti ho portato a casa tutte le vette che hanno raggiunto i tibetani, i sufi, gli indiani. Con il tempo mi sono abbeverato a tutte le fonti. E poi ho avuto delle esperienze mistiche...».
Del tipo?
«Beh, non posso dirglielo. Solo questo: abitavo in un piccolo paese della Sicilia, che quando sono nato si chiamava Jonia [dal ’45 è tornato a dividersi nei due comuni di Giarre e Riposto, ndr], e ho avuto delle esperienze che poi ho ritrovato sui libri dei tibetani. Identiche! Cosa dice: curiosa questa storia, no?».
Mi citi almeno un libro che l’ha segnata.
«Per esempio quello che ha scritto quel monaco benedettino tedesco, Willigis Jäger, quel libro che si chiama L’essenza della vita. Ogni tanto lo riprendo, e scopro cose che prima non avevo colto».
Mi dica di Willigis Jäger.
«Faccio una piccola sintesi. Questo monaco benedettino a un certo punto della sua vita ha conosciuto un maestro zen e ha vissuto sei anni in Giappone. Finché il maestro un giorno gli ha detto: torna in Europa e scrivi un libro. Quando Ratzinger, all’epoca non ancora Papa, ha letto il manoscritto, voleva impedirgli di pubblicarlo».
Cosa c’era di così scandaloso?
«È quello che non si può capire. Quel libro è pienamente occidentale, ci sono santa Teresa d’Avila, san Giovanni della Croce, Meister Eckhart... tutti trattati in una forma magnifica, indimenticabile».
Nel backstage del suo viaggio a Kathmandu, nel dvd allegato al volume, risuona l’auspicio che questo cofanetto finisca «nelle mani giuste». Quali sono le mani giuste? O, all’inverso, quali sarebbero le mani sbagliate?
«È chiaro che un ateo è inutile che lo legga, è inutile che lo veda. Qui c’entra Platone: se la ricorda la storia degli uomini incatenati nella caverna? Gli atei sono così, sono prigionieri che non possono girare la testa né a destra né a sinistra. Se vedesse santa Teresa d’Avila che levita in chiesa, un ateo le direbbe “Ma cretina, che fai? Scendi giù, ti stai dimenticando che c’è la legge di gravità…”».
Lei in cosa crede?
«Se credo in Dio? Se no non potrei fare questa strada».
Voglio dire: in quale tipo di divinità?
«Siccome sono stato molto fortunato in questo mio viaggio terrestre, terribilmente aiutato, mi viene in mente una canzone che ho scritto all’inizio degli anni 90, Sui giardini della preesistenza in cui descrivevo la nostra situazione “prima della caduta sulla terra, / prima della rivolta nel dolore”, con una chiarezza che io come essere umano non avrei potuto avere… Insomma noi abbiamo avuto una caduta e la dobbiamo pagare: quindi stiamo riprendendo la salita».
Che rapporto c’è tra questi pensieri «pesanti» e la leggerezza scintillante di canzoni come Cuccurucucù o L’era del cinghiale bianco? Detto altrimenti: il successo commerciale aiuta nella scelta che si è chiamati a compiere nel Bardo?
FRANCO BATTIATO AL PARLAMENTO EUROPEO
«Eheh… Lì qualche influenza l’ho avuta da Gurdjieff, che diceva: uno che riesce a fare i soldi va dritto nella spiritualità. E effettivamente è andata così».
Cosa ha rappresentato per lei Gurdjeff?
«Ho vissuto sette anni nei gruppi gurdjieffiani, sette anni magnifici. Sono entrato nel ’76, quando hanno aperto per la prima volta in Italia, a Milano, con Henri Thomasson, e ho trascinato tutti i miei amici in quest’avventura. A parte la meditazione, imparavamo per esempio quelle terribili danze dove fai quattro cose contemporaneamente, con la testa che gira da un lato, le mani dall’altro, i piedi dall’altro ancora. Oppure certi esercizi in cui bisognava dividere il cervello in due, da sinistra discesa in giù, da destra salita in su, pari da sinistra, dispari da destra…».
Per Gurdjieff è diventato anche editore.
«Ho pubblicato una quindicina di volumi con un marchio mio, L’Ottava. Vendevamo 9-10 mila copie per ogni titolo. Ci distribuiva Longanesi, che allora - metà degli anni 80 - era diretta da Mario Spagnol. Quando gli avevo presentato il mio progetto mi aveva chiesto in cambio di scrivergli un libro. Non l’ho fatto, non me la sentivo».
FRANCO BATTIATO AL PARLAMENTO EUROPEO
Che cosa ha pubblicato?
«Di Gurdjieff Vedute sul mondo reale e I racconti di Belzebù. Più un paio di titoli di Thomasson. Ma ho fatto anche libri di esoterismo africano, Her-Bak. Cecio e Her-Bak. Discepolo di Isha Schwaller de Lubicz. E poi testi sufici, come Il segreto dei segreti di Abd al-Qadir, un mistico musulmano del XII secolo, che ho trovato per caso in una libreria esoterica di Bath, in Inghilterra, quando ero impegnato a registrare nello studio di Peter Gabriel. Io negli anni 70 ho studiato l’arabo per tre anni all’Ismeo, avevo anche preso una borsa di studio per andare a affinarmi a Tunisi all’Istituto Bourghiba, però poi ho scelto di fare L’era del cinghiale bianco, e ho fatto bene…».
Un aspetto poco noto della sua personalità è che ama le barzellette. Ce ne racconta una?
«Devo pensarci un po’. Ne conosco un mare, ma adesso… Aspetti, ce n’era una siciliana… ah sì, sì-sì-sì. Non è granché, però… si deve accontentare. Allora: c’è un barbiere tipico della nostra isola, con la tendina per le mosche sulla porta. Arriva un tizio che la scosta e si mette a contare: “Uno due tre quattro cinque: ce la faccio”. Tutti si guardano, dicono ma chi è questo qui, boh… Dopo cinque o sei giorni il tizio di nuovo apre la tendina: “Uno due tre quattro cinque: oh, ce la faccio!”.
Allora il barbiere dice al suo garzone: “Salvatore, questo non mi sta piacendo, se viene un’altra volta tu ti levi il camice, lo segui, mi devi dire chi è”. E succede così, quello fa di nuovo ’sta scena, se ne va, Salvatore gli va appresso, torna dopo un’ora. “E allora”, gli chiede il barbiere, “che è successo?”. “Eh, cosa è successo… che è andato a casa sua e ha fatto l’amore con sua moglie”. “E a me che minchia me ne frega?”. “Principale”, fa il garzone, “posso darci del tu per una volta? Con tua moglie!”.
«Così, cose tipiche siciliane».
battiato GIOVANE battiato GIOVANE