Marino Sinibaldi per "Fahrenheit - RadioRai 3", pubblicata da "il Fatto Quotidiano"
Anticipiamo parte dell'intervista di Marino Sinibaldi a Luis Sepúlveda che andrà in onda nel corso di Fahrenheit, su Radio3, mercoledì pomeriggio, a quaranta anni dal golpe di Pinochet in Cile
SALVADOR ALLENDELuis Sepúlveda, iniziamo dal ricordo di quelle ore. A mezzogiorno dell'11 settembre viene bombardato il Palazzo della Moneda. Tu e gli altri membri del gruppo delle guardie del corpo più vicine ad Allende dove eravate?
Con altri due compagni del Gap, del gruppo di amici personali ossia la guardia del corpo di Allende, eravamo responsabili della sicurezza di una installazione che dava l'acqua potabile a Santiago perché il fascismo, la controrivoluzione cilena, finanziata dagli Stati Uniti e gruppi paramilitari avevano intentato azioni per eliminare l'acqua. Poi una parte del gruppo stava nella residenza di Allende, altri alla Moneda con lui.
E quando hai saputo del Golpe?
Il primo desiderio è stato di andare alla Moneda. Però già la resistenza dei quartieri popolari era forte, come nei settori industriali della città. Siamo arrivati a un ospedale del Sud di Santiago dove i soldati avevano ammazzato dottori, pazienti, gente che ci lavorava. Qui abbiamo sentito le ultime parole di Allende da Radio Magallanes, l'ultima al servizio del governo democratico, con le istruzioni del presidente di non lasciarsi matare, non morire, sopravvivere e organizzare la resistenza.
Cosa ricordi di quelle ore?
È stato un giorno particolare, strano, non solo terribile e doloroso. Era settembre, l'inizio della primavera, un mese di sole, con la temperatura che aumenta tutti i giorni. Quell'11 di settembre è stato un giorno di pioggia; una pioggia che dava alla città un colore stranissimo, un colore di penombra che era una sorta di premonizione del tempo che si avvicinava.
La cornice al dramma...
I morti, i tanti compagni visti per l'ultima volta, altri li ho incontrati anni dopo nell'esilio, altri in carcere, altri sono scomparsi. È stato il giorno più lungo e terribile della mia vita perché era la fine di una forma dell'essere. Da un punto di vista io, l'11 settembre del '73, ero un giovane di 23 anni. Alle 5 della sera di questo giorno già la giovinezza era passata, era sconfitta.
Improvvisamente adulto, cosa hai fatto?
Sopravvivere. Organizzare la resistenza, il movimento popolare.
Nei mesi precedenti, cosa vi aspettavate ? C'è stata una incapacità di capire cosa stava accadendo?
Sentivamo un profondo rispetto per l'esperienza di altri paesi dove era possibile una rivoluzione armata ma sapevamo che il Cile era diverso. Avevamo una particolarità, una singolarità nel continente americano che rendeva il Cile un paese dove era possibile arrivare a un socialismo democratico per la via pacifica.
Perché?
La nostra tradizione democratica era la più lunga di tutto il continente americano se si pensa che il Parlamento cileno, fino all'11 settembre del '73, è stato il parlamento più antico del mondo dopo quello britannico.
Ma c'erano stati segnali prima del-l'11 settembre?
A giugno un primo tentativo di golpe militare, soffocato grazie a un generale leale ad Allende, Carlos Prats, poi ucciso in Argentina.
Avete sottovalutato la situazione?
Quando l'insurrezione militare di giugno era stata già sconfitta, 100 mila operai si concentrarono di fronte alla Moneda al grido: "Armi, armi, armi!". Allora il generale Prats disse ad Allende: "Presidente, se mi dà l'ordine io apro gli arsenali di guerra e armo il popolo". E Allende: "No. Questa è una rivoluzione democratica, pacifica, con pieno rispetto delle istituzioni".
Poi c'è stato un crescendo...
Sì, come lo sciopero dei trasporti finanziato dagli Stati Uniti: se si guadagnava 100 per un giorno di lavoro, l'ambasciata americana pagava 1.000 per stare fermi.
E voi?
Consegnavamo tutto: medicine, alimenti. E grazie ai camion dei compagni militanti dell'Unità popolare, ai taxi, alle biciclette. Utilizzavamo tutto per non paralizzare il paese. E la guerra che combattevamo si chiamava guerra della produzione. La ricchezza del Cile è il rame, lo avevamo nazionalizzato, e lo esportavamo non solo come una materia prima, ma lavorato, manifatturato. Il rame significava lavoro per quasi 300 mila operai. Inoltre avevamo un grande potenziale agricolo ed energetico e la fiducia nella nostra capacità di frenare la controrivoluzione.
Però...
Abbiamo sottostimato il ruolo degli Stati Uniti. Il presidente Nixon decise di eliminare il governo come una questione personale, Kissinger fece di tutto per finanziare la controrivoluzione anche con l'arruolamento di mercenari, di criminali che arrivarono nel Cile a seminare il terrore.
Gli Stati Uniti non potevano permettere un'altra Cuba.
Penso che il grande peccato sia stato sottostimare l'importanza crescente dell'esempio della rivoluzione cilena perché era perfettamente imitabile in altri paesi che avevano una traiettoria politica democratica che si avvicinava alla nostra, come l'Uruguay, per esempio. Anche l'importanza internazionale della nostra rivoluzione era crescente.
Nel 1972, all'assemblea generale delle Nazioni Unite, Allende ha fatto un discorso che ha prefigurato i grandi poteri delle compagnie multinazionali, dell'impresa anonima in quanto alla nazionalità (perché non si sa che paese rappresenta il consiglio degli azionisti per esempio di una grande multinazionale). Allende disse che queste grandi compagnie cominciavano a rimpiazzare la sovranità dello stato.
Andare in esilio dopo quattro anni è stato l'esito di una considerazione realista o portava anche un senso di sconfitta?
No, era inevitabile. Sono stato quasi tre anni in prigione e, dopo una farsa di giudizio, condannato prima alla pena capitale poi a 28 anni. I prigionieri politici non avevano diritto a un difensore, ma a un avvocato militare che era nominato dalla stessa giustizia militare. Un giorno il mio mi disse: "Ho una buona notizia". E io: "Non mi ammazzano con la forca, mi fucilano?". "No, ti cambiano la condanna di morte con 28 anni di carcere". Pensai: bene, ne ho 23. Sarò libero a 51. Mi resta tempo per vivere...
E invece...
Quando stavo per entrare in carcere, una ragazza di Amburgo che non conoscevo, attivista di Amnesty Internationall, che incredibilmente aveva letto due miei racconti pubblicati nella Ddr, ha cominciato la campagna che ha portato Amnesty a reclamare la libertà di un prigioniero di coscienza. Con un risultato: mi hanno applicato un famoso decreto della dittatura, il numero 501: da 28 anni di carcere all'esilio.
Destinazione Germania?
No, la Svezia. Ma il volo faceva scalo a Buenos Aires e qui ho deciso che volevo restare vicino al Cile, in Sudamerica.
Nonostante il pericolo.
Sì, ma era impossibile la permanenza a Buenos Aires perché c'era una dittatura terribile. Dall'Argentina sono andato in Uruguay ma era la stessa storia. Ho ritrovato vecchi compagni o famiglie di compagni che mi hanno detto: "Per noi sei il benvenuto però la situazione è questa". Quindi il Brasile.
Lì ho cominciato a lavorare in un teatro di cui era direttore un mio ex compagno della scuola di teatro dell'università del Cile, un brasiliano. Tre settimane, ma un giorno è arrivata la polizia politica brasiliana e in 48 ore ho dovuto abbandonare il paese.
A quel punto?
Il Paraguay e poi la Bolivia. Avevo tanti amici anche in Bolivia ma era la stessa situazione.
Tutto il Sudamerica.
Sì, poi il Perù. Un giorno casualmente un grande scrittore ecuadoriano, Jorge Enrique Adoum, mi ha falsificato un documento per visitare e lavorare in Ecuador. E in Ecuador ho fatto tante cose: ho lavorato nella stampa, sono stato proprietario di un piccolo caffè-teatro, poi una spedizione in Amazzonia che dopo mi ha dato il materiale per la scrittura de "Il vecchio che leggeva romanzi d'amore".
Torniamo a quei momenti. Nelle ore successive, nei giorni successivi cosa facevate? Quanto contava la solidarietà del mondo?
Abbiamo scoperto la solidarietà dal primo giorno. Non c'era internet, l'unica possibilità di sapere era la radio e le trasmissioni a onde corte. Ricordo che la prima grande dimostrazione di solidarietà arrivò attraverso Radio Nederland, nella trasmissione in spagnolo della radio olandese che parlava di grandi manifestazioni di gente ad Amsterdam, a Berlino, a Roma eccetera. Non eravamo soli. La solidarietà internazionale stava funzionando. Poi Radio Mosca cominciò con una trasmissione che si chiamava "Escucha Chile", tre volte al giorno.
Come vi organizzavate?
Sapevamo che la nostra capacità non era la stessa della forza armata però sapevamo che la simpatia popolare permetteva piccole azioni. Già il 15 di settembre il primo atto operativo militare della resistenza: l'assalto a tre camion del pane e la distribuzione in un quartiere popolare. Poi le prime pubblicazioni di una sinistra clandestina, distribuite alla fermata del bus, nella stazione del metro, lanciate nella strada da un edificio, nell'università. Alla dittatura, che diventava più brutale, più forte, la risposta era sempre uno sforzo immaginativo per conservare la resistenza.
La differenza tra socialista, comunista, Mir era scomparsa: tutti compagni, tutti nella stessa tragedia. Nei sedici anni della dittatura, Pinochet e i suoi uomini non hanno conosciuto un solo giorno di pace: tutti i giorni hanno avuto un'azione della resistenza, due azioni. Esecuzioni dei criminali della dittatura.
Cosa resta di allora?
Provo una rabbia enorme nel vedere che l'attuale dirigenza politica cilena della destra e del centro-sinistra che ha governato venti anni ha dimenticato questo, ha dimenticato lo sforzo che ha significato mantenere una resistenza.
Pensavate che la dittatura sarebbe durata così a lungo?
No, no. Questa è una cosa che è comune a tutti i popoli. Nessuno pensa che la dittatura durerà tanti anni. I vecchi spagnoli dicevano sempre: "No, in questo anno Franco cade". Ma c'erano cose difficili da capire. Per esempio che un paese comunista come la Repubblica popolare cinese fosse stato il primo paese, ancora prima degli Stati Uniti, ad avere rapporti diplomatici e commerciali con la dittatura di Pinochet; che la ex Unione sovietica, affratellata con il Partito comunista cileno, non avesse interrotto le relazioni con la dittatura e anzi le coltivasse. Per noi la solidarietà più importante è giunta dai discorsi di Willy Brandt in Germania e Olof Palme in Svezia.
Quarant'anni dopo, che cittadino si sente Luis Sepùlveda?
Di tanti paesi. Il mio è un passaporto tedesco e ringrazio la Germania perché mi ha dato la possibilità di girare il mondo senza problemi. Vedi, per un lungo periodo sono stato un apolide, ed è terribile avere il passaporto che ti danno le Nazioni Unite, un passaporto blu. Sei sempre l'ultimo nell'aeroporto, sempre sospetto. Ti lasciano o non ti lasciano salire sull'aereo: tutto dipende dalla volontà del comandante dell'aereo. Ti lasciano o non ti lasciano entrare in un paese: tutto dipende dal poliziotto che guarda il tuo passaporto. Sei un uomo di quarta categoria.
Tutte le dittature lasciano un frutto e questo frutto è un frutto terribile, è un frutto ideologico. Non si finisce con questo frutto ideologico della dittatura in maniera veloce perché è una questione culturale che si installa nella società. È l'individualismo, la negazione della cultura, la negazione della memoria, la negazione della storia anche. Però una parte importantissima della società cilena ha cercato di recuperare tutta la memoria, tutte le storie e di contribuire al racconto della nostra società in una maniera completa. E curiosamente la gente più entusiasta di questo sono i giovani del Cile.
SEPÚLVEDACon un'eredità terribile...
Certo, se poi si pensa che la dittatura è finita nel 1990, non si capisce come nel 2013 il paese abbia la stessa costituzione lasciata da Pinochet, scritta per Pinochet, in favore della dittatura e della gente affine al dittatore.
Che ne pensa del governo attuale?
Sebastián Piñera è un uomo di evidenti limiti intellettuali, il poverino non è incolpabile di questo, ma Piñera e tutto il suo corpo di ministri è tutta gente che ha fatto fortuna con la dittatura. Sono stati complici della violazione dei diritti umani.