E ANCHE NELL’EDITORIA SIAMO UN PAESE DI CARTA STRACCIA: A FRANCOFORTE ARIA DI DISFATTA

Gian Arturo Ferrari per "Il Corriere della Sera"

Nei corridoi semivuoti della Fiera di Francoforte il declino italiano diventa palpabile. Spazi abbandonati, con rade sedie. Stand - quelli rimasti - con dimensioni ridotte, in una patetica ostentazione di parsimonia. Esondazione dei vicini. Turchi proliferanti, di nuovo conquistatori.

Azerbaigiani con imbarazzanti ritratti del loro leader, identici a quelli di Berlusconi. Islamici e slavi assortiti tutt'attorno, in un assedio sempre più stretto. Gli altri stanno meglio: francesi in compagnia di cinesi e giapponesi, inglesi insieme agli americani, tedeschi - perché padroni di casa, ma soprattutto perché tedeschi - da soli.

A casa nostra gli sguardi un po' febbrili e un po' fissi di chi pensa solo al taglio dei costi e all'abbassamento dei prezzi, senza aver ben chiaro che la seconda mossa annulla la prima. Idee poche, immaginazione e inventiva - quel che si suol stucchevolmente chiamare creatività - ancor meno.

Stanno male anche gli inglesi, ma per ragioni diverse. Hanno confidato ciecamente nella grande distribuzione e il canale si è mangiato il prodotto. A forza di trattare i libri come merendine, vendono solo i libri che parlano di merendine (o giù di lì). Noi invece diamo l'impressione di un corridore sfiancato, che si è prodotto in un grande sforzo, ma che adesso non ce la fa più. E che forse non arriverà mai al traguardo.

Centocinquant'anni fa, al momento dell'unificazione, piu' di tre quarti della popolazione italiana era costituito da analfabeti. Di vera editoria non era proprio il caso di parlare. In una prima fase, eroica, abbiamo, noi italiani, costruito insieme una scuola e un'editoria. Tra le due guerre ci siamo dotati anche noi, come i Paesi europei cui guardavamo, di una grande editoria nazionale.

Nel secondo dopoguerra, singolare caso di made in Italy, abbiamo inventato, noi italiani, un nuovo modello di editoria, poi copiato e ricopiato da molte parti. L' editoria di cultura, miscela di acume e di eleganza, prima Einaudi e poi Adelphi. Nell' ultima ventina d'anni abbiamo pensato di essere arrivati (e in parte ci siamo arrivati davvero) nella prima categoria dei Paesi del libro. Profitti più che buoni, nascita di un mercato di massa, una struttura editoriale a gruppi, cioè più efficiente, l'inizio di una proiezione internazionale.

Ma i primi venti di crisi hanno abbattuto queste fragili illusioni. Il mercato ha l'acqua alla gola, i produttori pensano ai loro altri settori di attività, ancor più vacillanti, gli italiani hanno abbandonato gli investimenti all'estero e dall'estero nessuno investe in Italia. I francesi sono in Gran Bretagna, gli spagnoli in Francia, i tedeschi dovunque, ma gli svedesi in Germania. L'industria libraria - che in narrativa e saggistica è praticamente tutta a capitale europeo - non ha più frontiere, tranne che nella negletta Italia.

Le responsabilità sono, come sempre, di tutti e di nessuno. Sono della mano pubblica, che ha martoriato una scuola già debole. E non ha saputo creare una platea di lettori perché non ha mai davvero creduto che leggere libri fosse uno degli attributi essenziali della cittadinanza moderna. Sono del privato, che non è mai riuscito a mettere sensatamente insieme proprietà, management e competenza editoriale. Sono del Paese nel suo insieme, che non ha mai avuto la capacità di vedere pubblico e privato come facce della stessa medaglia e li ha lasciati lì a ignorarsi o a guardarsi in cagnesco.

L'industria culturale non è la cultura e l'industria libraria è solo una parte dell'industria culturale. Ma dovrebbe essere chiaro a tutti che nel ventunesimo secolo non si dà cultura senza industria culturale e che a sua volta l'industria culturale è una delle poche sicure industrie del futuro.

Di quello italiano, soprattutto. Per questo quel che sta accadendo è davvero allarmante. Non è il solito piagnisteo perché non siamo arrivati abbastanza in alto. È il contrario, è il senso di vuoto di chi si accorge di esser giunto in cima alla parabola e vede di fronte a sé solo la discesa, non si sa quanto precipitosa.

Non c'è un Moody's o uno Standard and Poor's dell'editoria, ma se ci fosse ci avrebbe già declassato. Culturalmente parlando stiamo per diventare, o forse siamo già diventati, un Paese di seconda categoria. Non è, forse, una tragedia. Basta saperlo.

 

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