Estratto dell’articolo di Davide Frattini per il “Corriere della Sera”
A […] Mohammed Dahlan […] è sempre piaciuto viaggiare, esplorare la bella vita — dicono i critici — lui che è venuto su tra i cubi non intonacati di Khan Yunis, a giocare per le strade immiserite con Yahia Sinwar, nati a un mese di distanza nel 1961.
Cresciuti insieme, diventati adulti su barricate opposte: l’attuale capo di Hamas con i fondamentalisti che da subito vogliono scalzare il Fatah di Yasser Arafat, mentre Mohammed diventa il plenipotenziario del raìs a Gaza.
Dahlan fa parte della nuova generazione, i giovani — almeno rispetto ai padri fondatori della causa — che finiscono nelle carceri israeliane durante la seconda intifada, che in prigione imparano l’ebraico e ne fanno uno strumento di strategia, il linguaggio per parlare con l’avversario, per tentare — quando è possibile — il dialogo.
A lui gli israeliani parlano tanto e questo ai palestinesi finisce con il piacere poco. Abu Mazen — che ha sempre rinviato il voto dopo quello del 2005 che l’ha eletto presidente — lo considera un avversario, un manovratore, essere stato a capo dei servizi segreti ha insegnato a Mohammed come muoversi tra vari poteri.
Lo accusa di tradimento, di complotto per deporlo, di aver passato ai giornali arabi le carte che rivelano gli intrallazzi e la corruzione dei due figli.
Dahlan non può tornare a Ramallah, rischierebbe l’arresto.
Ma si tiene in forma — 90 minuti di corsa al giorno ¬— per quando potrebbe trovarsi a sprintare verso il traguardo.
Vive ad Abu Dhabi dove ha accumulato milioni di dollari e influenza sulle decisioni dell’emiro Mohammed bin Zayed Al Nahyan. Ancora una volta per l’anziano presidente, 87 anni, la prova che l’esiliato trama perfino a 2.400 chilometri di distanza, avrebbe negoziato per permettere gli accordi di Abramo, l’intesa di normalizzazione con Israele firmata dagli Emirati Arabi Uniti e considerata da Abu Mazen «una pugnalata alle spalle» dei palestinesi.
Dahlan ha mantenuto i contatti anche da lontano ed è convinto, spiega al settimanale britannico Economist , che nessun singolo leader — sottinteso: per ora neppure lui — possa prendersi la Striscia dopo Hamas, dopo la fine della guerra.
Propone un governo di transizione che amministri i territori (Cisgiordania compresa) per un paio d’anni: formato da tecnocrati, un passaggio necessario per sanare il lungo periodo di lotte interne e spaccature tra le fazioni. Paesi come gli Emirati, l’Arabia Saudita, la Giordania, il Qatar dovrebbero intervenire per finanziare e sostenere l’esecutivo ad interim.
Dopo questo periodo — sarebbe il suo piano — i palestinesi potrebbero finalmente tornare a votare per il parlamento e a Hamas, che aveva vinto nel 2006, dovrebbe essere permesso partecipare. Il sistema dovrebbe essere modificato: più poteri al primo ministro e riduzione di quelli del presidente. «Che un uomo solo possa risolvere la questione palestinese è un’illusione. Il tempo degli eroi è finito con Arafat».
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