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"LA PORTA È L’ARMA DEL DELITTO" – LA REQUISITORIA DEL PM DI CASSINO AL PROCESSO PER L’OMICIDIO DI SERENA MOLLICONE, UCCISA 21 ANNI FA: IL SEGNO SULLA PORTA DELL’ALLOGGIO DEI MOTTOLA È COMPATIBILE CON IL CRANIO DELLA 18ENNE RICOSTRUITO IN 3D – PER LA PROCURA L’ASSASSINO È MARCO MOTTOLA, FIGLIO DEL MARESCIALLO DELLA STAZIONE DEI CARABINIERI DI ARCE: “SERENA SALÌ NELLA Y10 BIANCA DI MARCO MOTTOLA PER UN PASSAGGIO, SI FERMÒ AL BAR DOVE FU VISTA LITIGARE CON LUI E POI IN PIAZZA…”

Fulvio Fiano per www.corriere.it

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Il penultimo atto di una attesa lunga 21 anni, l’ultimo tentativo di arrivare alla verità. In corte d’Assise a Cassino, al termine di un dibattimento durato 46 udienze, parlano i pubblici ministeri che accusano l’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, il maresciallo Franco Mottola, suo figlio Marco e sua moglie Anna Maria, assieme al vicemaresciallo Vincenzo Quatrale dell’omicidio di Serena Mollicone, la 18enne sparita l’1 giugno 2001 dal paesino del frusinate e trovata cadavere in un bosco lì vicino 48 ore dopo. Un altro carabiniere, Francesco Suprano, è accusato di favoreggiamento. Tutti gli imputati (escluso Marco Mottola) sono presenti in aula, così come la sorella di Serena, Consuelo, lo zio Antonio e gli altri parenti costituiti parte civile.

 

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«Piena compatibilità con la frattura al capo»

«Il cuore del processo è quale sia l’arma del delitto — esordisce il pm Beatrice Siravo, riferendosi alla porta contro la quale sarebbe stata fatta sbattere la testa della ragazza — Quando abbiamo riaperto le indagini con l’ipotesi dell’omicidio avvenuto in caserma e con la perizia sulla porta avevamo poche speranze su un risveglio delle coscienze. L’unica che potesse dirci chi ha ucciso Serena era Serena stessa ma noi siamo arrivati ad avere una prova scientifica solidissima». Il pm ripercorre poi i passi con i quali si è arrivati a identificare la porta dell’alloggio degli ufficiali, quindi dei Mottola, spostata poi nell’appartamento in uso a Suprano, come arma del delitto. Dalle prime testimonianze sulla sua collocazione fino alle accurate analisi sulla compatibilità della lesione sul capo della vittima con i segni presenti sulla porta.

 

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«Analisi scientifiche scrupolosissime - le definisce il pm - che hanno portato a escludere ogni ipotesi alternativa (gli imputati sostengono che quei segni sono dovuti a un non meglio precisato pugno di Marco o Franco Mottola nel corso di una lite familiare, ndr)». Il pm elenca tutti i dati scientifici che sostengono questa «piena compatibilità» e invita i giudici a «un macabro esperimento», provare a incastrare il calco del cranio di Serena ricostruito in 3D con la frattura nel panello della porta. Anche le altre analisi sui frammenti di legno, le tracce di colla e vernice rinvenute sul nastro adesivo con cui è stata imbavagliata e legata Serena e nei suoi capelli sono, secondo l’accusa, univoche nel far ritenere che «l’omicidio è avvenuto all’interno della caserma» e che «la porta è l’arma del delitto oltre ogni ragionevole dubbio».

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L’aggressione seguita a una lite

Il pm svela poi la carta tanto attesa: «L’autore del delitto è Marco Mottola e alla sua responsabilità si arriva anche senza tener conto della pur attendibile testimonianza di Santino Tuzi (il brigadiere poi morto suicida dopo aver rivelato di aver visto Serena entrare in caserma, ndr)». La pubblica accusa esamina una alla volta le oltre 130 testimonianze ascoltate in aula sugli oltre 240 testi citati. Ripercorre la mattina di Serena che dopo una visita dal dentista non arrivò mai a scuola, fu vista piangere in auto con un ragazzo dai capelli meschati al bar Chioppetelle e valorizza tutti i ricordi dei testimoni che portano ad identificare la vettura in quella di Mottola jr e in lui la persona che era con la 18enne, a partire da quella di Carmine Belli, primo imputato (poi assolto) del delitto, ed eliminando tutte quelle rivelatesi poi inattendibili.

 

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«Sono false le testimonianze di Pier Paolo Tomaselli e Simonetta Bianchi per i suoi tanti “non ricordo”», dice il pm, che chiede la trasmissione degli atti relativi alla loro deposizione per indagarli. «Serena — è la ricostruzione della procura — dopo il dentista a Sora salì nella Y10 bianca di Marco Mottola per un passaggio, si fermò al bar dove fu vista litigare con lui e poi in piazza ad Arce. Si presentò quindi in caserma per riprendere i libri che aveva lasciato sulla vettura e qui fu aggredita». Il movente dell’omicidio sarebbe proprio in quel litigio «anche se non ne conosciamo il contenuto, ma sicuramente non quello sentimentale, dato che Serena era fidanzata e che con Marco non c’era nulla».

 

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Il padre di Serena, Guglielmo, ha sempre sostenuto che la figlia volesse denunciare Mottola jr per la sua nota attività di spacciatore, nella quale godeva della immunità garantita dal ruolo del padre (come ribadito da più testimoni). Una ipotesi ripresa anche dal pm, rilanciando una vecchia testimonianza dell’uomo, il quale ricordò come la figlia avesse discusso anche con il maresciallo Mottola proprio su questo punto. Serena e Marco furono visti litigare anche la sera prima della sua scomparsa.

 

I depistaggi

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Il capitolo successivo della sua requisitoria, il pm lo dedica ai depistaggi che il maresciallo Mottola avrebbe messo in atto per proteggere il figlio a partire proprio dalla testimonianza non registrata di Simonetta Bianchi, che disse di aver visto Serena e Marco sulla Y10 bianca. La segnalazione dell’auto fu volutamente alterata, dice l’accusa, né mai fu avviata la ricerca di un ragazzo biondo meschato. «Solo il 27 giugno, con 25 giorni di ritardo, Franco Mottola annotò di aver raccolto quella testimonianza, alterandone però il contenuto».

 

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Anche sulla colorazione dei capelli di Marco Mottola tanto contestata dalle difese, la procura di Cassino ritiene di avere le conferme necessarie. Anche la testimonianza di Carmine Belli non fu annotata per prendere tempo. E nascondendo quell’avvistamento, il maresciallo Mottola si arrogò la competenza sulle indagini anche se per territorio sarebbero spettate alla caserma di Isola Liri. «Quella di Franco Mottola è una anomalia su scala mondiale, il primo caso di un assassino che indaga su se stesso, avendo ampia mano per depistare le indagini». La sua, sottolinea la procura, «non era sciatteria ma volontà di allontanare le indagini dal ragazzo biondo meschato sulla Autobianchi Y10 bianca».

 

SERENA MOLLICONE

Anzi, nella sua relazione parlò di una Lancia Y rossa. Proprio in virtù di questi depistaggi, Mottola stava per essere trasferito d’ufficio, ma riuscì ad anticipare l’onta chiedendo lui un’altra destinazione. Il rapporto stilato sul suo operato, letto in aula dal pm, parla di «inconsistente apporto informativo alle indagini», accertamenti «piuttosto lacunosi», per i quali «la ammissione di superficialità è una spiegazione insoddisfacente». «Mottola sapeva che il figlio frequentava pusher e consumava droga — è scritto ancora nella relazione — e questo fa sussistere una incompatibilità ambientale che rende necessari provvedimenti disciplinari (il suo trasferimento, ndr)».

 

«Il maresciallo e la moglie nascosero il corpo»

Il pm ricostruisce anche altri spostamenti di quella mattina in caserma, dove oltre al figlio era presente la moglie del maresciallo Mottola. Dopo l’aggressione, lui e il figlio si diedero una sorta di cambio. Marco uscì, mentre Franco, rientrato dai preparativi della festa dell’Arma, non se ne allontanò più, al contrario di quello che dice un ordine di servizio falsificato, «perché era impegnato a far morire Serena (tramortita dal trauma cranico ma che si poteva ancora salvare) avvolgendole il corpo con il nastro adesivo». Ma il pm Siravo fa un’altra rivelazione: «I genitori di Marco, il maresciallo Mottola e la moglie Annamaria nascosero il corpo di Serena uscendo quella notte stessa dalla caserma tra la mezzanotte e l’una». La pubblica accusa arriva a questa conclusione dall’esame dei tabulati telefonici, dagli ordini di servizio della caserma e dalla testimonianza di un’altro carabiniere che vide rientrare la signora Mottola in orario notturno negli appartamenti.

SERENA MOLLICONE E IL PADRE GUGLIELMO

 

Le dichiarazioni di Tuzi

Capitolo successivo dedicato alla testimonianza chiave di Santino Tuzi, il brigadiere morto suicida (Quatrale è imputato per averlo istigato) dopo aver rivelato di aver visto Serena in caserma. «Si decise a parlare dopo sette anni — dice il pm — quando in lui nacque il timore di essere arrestato. Rivelatrice in questo senso la conversazione intercettata con la sua amante, Anna Torriero : «Mi vogliono mettere le manette per quello che è successo qua (in caserma, per quello che è successo con la ragazza», dice il brigadiere mentre è in corso l’interrogatorio del collega Suprano. Ai superiori che indagano si mostra sicuro: «Quella mattina ha citofonato in caserma una ragazza e una voce di uomo giovane, che suppongo fosse Marco, perché il maresciallo Mottola era fuori per servizio, mi disse all’interfono di farla passare».

 

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Tuzi è credibile, dice il pm, perché descrive con precisione la borsa a parallelepipedo con delle frange che Serena aveva (come confermano le sue amiche) ma che non fu mai ritrovata». Nella registrazione fuori verbale del suo interrogatorio Tuzi si lascia andare a uno sfogo: «Se Marco lo schiaffano dentro sono contento». La procura ritiene Tuzi pienamente credibile e attribuisce i suoi successivi e parziali ripensamenti alle pressioni ricevute dal collega Quatrale. Il pm dell’epoca descrive Tuzi come uno che si è liberato da un peso e alla domanda se avesse ricevuto pressioni dai Mottola per ritrattare lui dice di no ma descrive il clima in caserma come «omertoso».

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