LA STRADA È UN LUSSO - IL MONDO DELLA MODA PIANGE QUEL GENIACCIO DI VIRGIL ABLOH, DIRETTORE CREATIVO MENSWEAR DI LOUIS VUITTON E AD DI OFF-WHITE, MORTO A 41 ANNI PER UN CANCRO: HA PORTATO IL MONDO “STREET” DEI RAGAZZI NELL’ARIA RAREFATTA DI UNA MAISON STORICA -  RIUSCIVA A MUOVERSI TRA L’ESSERE UN “PURISTA”, PORTANDO AVANTI I SUOI PROGETTI CON L’OCCHIO ATTENTO DI CHI CONOSCEVA LA MODA, E L’ESSERE UN “TURISTA”, OVVERO UN APPASSIONATO CHE… VIDEO

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Matteo Persivale per il “Corriere della Sera”

 

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La vita breve e straordinaria di Virgil Abloh verrà ricordata, come è ovvio e giusto, per la nomina - che fu indubbiamente storica - a direttore creativo del menswear di Louis Vuitton, primo afroamericano a ricoprire quel ruolo centrale nella moda francese e nel lusso globale.

 

C'è da aggiungere un «però» gigantesco, grande come il suo talento: però sarebbe ingiusto e scorretto ricordarlo principalmente per il ruolo - che ebbe, non c'è dubbio - di pioniere. Abloh fu soprattutto il simbolo - che incarnava con ammirevole sprezzatura - di un mondo nuovo, un mondo giovane e tecnologico e libero dai vecchi schemi che faceva inesorabilmente la sua entrata nella moda, eclissando quello precedente ormai obsoleto.

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Virgil Abloh, imprenditore e stilista, architetto e deejay, stylist e appassionato designer industriale - le sue conferenze in materia, visibili anche su YouTube, sono piccoli gioielli di sottigliezza e sagacia - portò la strada, il mondo «street» dei ragazzi che vanno a scuola e vivono per metà nel mondo digitale, nell'aria rarefatta del lusso di una maison storica, e per estensione illuminò di questa luce nuova il non sempre rutilante mondo della moda.

 

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La campagna primavera-estate 2019 di Vuitton, probabilmente quella che lo rappresentò meglio di tutte, non aveva modelli ma ragazzi, fotografati a scuola, sorridenti, con gli zainetti e i telefoni e le sneaker (Abloh, attraverso tutta la carriera culminata con Off-White e Vuitton, fu un riconosciuto genio delle calzature sportive).

 

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La moda lasciava posto, con trasparenza, alla vita. Più grande, ma non di molto, di quei ragazzi, era di fatto un loro fratello maggiore: come loro faceva la fila davanti al negozio di Supreme per ore, a New York, in attesa del prossimo «drop», il rilascio di qualche nuovo oggetto del desiderio. Come loro, viveva dentro il suo telefono - «è il mio ufficio portatile», ammetteva mostrando l'iPhone e sorridendo con la gentilezza da ragazzo del Midwest. Come loro sentiva istintivamente, sulla pelle, la fine di un mondo remoto e patinato e l'inizio di una fase nuova, fase della quale fu uno degli interpreti più visibili.

 

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Criticarlo perché era «un deejay» era facile, non sbagliato ma alla fine inutile: quella critica mancava il bersaglio perché il più giovane (mentalmente) di tutti, Karl Lagerfeld, aveva già previsto quando Virgil faceva lo stagista da Fendi (2009) che la moda in futuro avrebbe avuto al comando meno designer e più art director (e come sempre il «Kaiser» aveva colto nel segno).

 

Una delle sue ultime apparizioni non è stata nel mondo della moda ma, come piaceva a lui, in strada: applaudì l'opera postuma di Christo, l'Arc de Triomphe celato alla nostra vista, l'arte pubblica che diventa segreta. In Christo, Abloh vedeva l'incarnazione della sua teoria sull'immaginazione, il dialogo continuo tra «turista» e «purista». Il turista, nella sua formulazione, è un appassionato, con gli occhi spalancati sul nuovo. Il purista, invece, è un esperto che parla ad altri esperti.

 

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Virgil Abloh resistette strenuamente a questo schema, considerando se stesso turista e purista, visitatore felice di due mondi diversi, al fine di creare uno spazio di creazione più democraticamente inclusivo. Per questo, se lo mettevi alle strette (con gentilezza, come lui trattava te), Virgil diceva che tutto quello che aveva fatto, l'aveva fatto per il ragazzo diciassettenne dentro di lui. Era la verità perché di verità, più che di moda e di tendenze, è vissuto. È il modo più bello di ricordarlo.

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