1. CHI HA SOTTRATTO L’ARCHIVIO DI RIINA? FINO A IERI SAPEVAMO CHE ERANO STATI ALCUNI MAFIOSI. ADESSO QUALCUNO CI INFORMA CHE QUEL TESORO È FINITO IN UNA CASERMA 2. L’ANONIMO È UN CARABINIERE: “IL COVO DEL LATITANTE FU SUBITO PERQUISITO SENZA AVVERTIRE I MAGISTRATI E L’ARCHIVIO DEL CAPOMAFIA VENNE INIZIALMENTE NASCOSTO IN UNA CASERMA DEI CARABINIERI”, QUESTO SCRIVE L’ANONIMO CHE A FINE SETTEMBRE HA MESSO IN ALLERTA IL SOSTITUTO PROCURATORE NINO DI MATTEO E I SUOI COLLEGHI 3. NELLA LETTERA NON SI PARLA SOLO DI MAGISTRATI SPIATI, MA ANCHE DI “UN MAGISTRATO DELLA PROCURA” DI CUI I PM DELLA TRATTATIVA “NON DOVREBBERO FIDARSI” 4. POTREBBERO ESSERE COINVOLTI ANCHE ALTRI POLITICI DELLA PRIMA REPUBBLICA, OLTRE MANCINO, DELL’UTRI E MANNINO. SONO OTTO I NOMI ADESSO AL VAGLIO DELLA PROCURA 5. LA PROCURA CHIEDE I NOMI DEI CARABINIERI CHE PARTECIPARONO ALLA CATTURA DEL BOSS

1. L'ANONIMO È UN CARABINIERE - "LE CARTE DI RIINA NASCOSTE IN CASERMA" E POI FATTE SPARIRE. LA PROCURA CHIEDE I NOMI DI CHI PARTECIPÒ ALLA CATTURA DEL BOSS
Salvo Palazzolo per Repubblica

Da alcune settimane, i magistrati che indagano sulla trattativa fra mafia e Stato hanno riaperto in gran segreto uno dei capitoli più travagliati dell'antimafia, la cattura del capo dei capi Totò Riina. Vent'anni dopo, si fa avanti tutta un'altra storia rispetto alla versione ufficiale sempre ribadita dai vertici del Ros: «Il covo del latitante fu subito perquisito e l'archivio del capomafia venne inizialmente nascosto in una caserma dei carabinieri», questo scrive l'anonimo ben informato che a fine settembre ha messo in allerta il sostituto procuratore Nino Di Matteo e i suoi colleghi del pool.

In dodici pagine, anticipate ieri da Repubblica, c'è una verità che presto potrebbe riscrivere la storia della trattativa fra le stragi del ‘92-‘93: poche ore dopo l'arresto di Riina, scattato in una delle piazze più note di Palermo, i carabinieri del Ros avrebbero perquisito la villa covo del boss senza avvertire i magistrati, portando via le carte del capo di Cosa nostra.

«Si tratta di carte scabrose», spiega adesso l'anonimo autore, che dice di essere stato testimone diretto di quei giorni del gennaio ‘93: indica una caserma del centro dove sarebbe stato nascosto l'archivio di Riina. E poi traccia addirittura il percorso preciso per arrivare a una stanza in particolare. «Ma lì le carte sono rimaste poco, poi sono state portate via», aggiunge. Dove, è un mistero.

Una cosa, però, è certa: scorrendo quelle 12 pagine - suddivise in 24 punti - sembra emergere che il misterioso autore dell'anonimo è stato lui stesso un carabiniere, probabilmente un sottufficiale dei reparti territoriali o del Ros, perché indica con precisione nomi, cognomi e addirittura soprannomi dei militari e degli ufficiali che avrebbero partecipato a vario titolo alle indagini per l'arresto di Totò Riina. E adesso i magistrati di Palermo hanno chiesto ai funzionari della Dia di identificare tutti i carabinieri citati. Sono una trentina. Presto, potrebbero essere ascoltati uno dopo l'altro dai magistrati.

Al momento, le 12 pagine sono conservate nel cosiddetto "registro 46" della procura di Palermo, quello che custodisce gli anonimi. Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che coordina l'inchiesta sulla trattativa, si limita a dire: «Abbiamo delegato accertamenti alla polizia giudiziaria». Il procuratore Francesco Messineo aggiunge: «Su alcuni fatti, l'anonimo fornisce dettagli inediti. Stiamo cercando i riscontri». I magistrati non escludono neanche l'ipotesi che dietro l'anonimo ci possano essere più persone, magari ex appartenenti a uno stesso reparto.

Dell'anonimo si occupano pure i magistrati della procura di Caltanissetta, che hanno aperto ufficialmente un'inchiesta dopo avere ricevuto una «comunicazione » dai colleghi palermitani. E non solo per il riferimento all'agenda rossa del giudice Borsellino («È stata portata via da un carabiniere »), ma anche per le parole inquietanti sui magistrati di Palermo («Siete spiati da qualcuno che canalizza verso Roma le informazioni che carpiscono sul vostro conto»). Dal Guatemala, l'ex procuratore Antonio Ingroia fa sapere: «In effetti, negli ultimi tempi ho avuto la sensazione netta di essere controllato, proprio per le mie indagini».

Nella lettera non si parla solo di magistrati spiati, ma anche di «un magistrato della procura» di cui i pm della trattativa «non dovrebbero fidarsi». È un altro mistero intorno a questa lettera senza firma.

L'anonimo autore poi lancia la sua ultima certezza: «La trattativa con la mafia c'è stata ed è tuttora in corso». Ecco perché tanta attenzione sui magistrati. Lui, l'uomo del mistero, suggerisce che nel torbido dialogo fra Stato e mafia potrebbero essere coinvolti anche altri politici della prima repubblica, oltre Mancino, Dell'Utri e Mannino. Sono otto i nomi adesso al vaglio della procura.

2. QUEL COVO SENZA PIÙ TRACCE DEL PASSATO - UN MISTERO DI STATO LUNGO VENT'ANNI
Attilio Bolzoni per Repubblica

L'indagine sulla trattativa era partita da lì e dopo vent'anni torna sempre lì: al covo di Totò Riina. È il grande mistero palermitano. Mai ufficialmente perquisito e mai ufficialmente sorvegliato. In apparenza abbandonato, in realtà ripulito e svuotato per cancellare il passato di un boss.

È quel covo che segna il confine fra un prima e un dopo in tutte le inchieste poliziesche dell'antimafia in Sicilia. Oggi, dopo tanto tempo, si riparla della villa nel quartiere dell'Uditore di Palermo con un anonimo che racconta retroscena su ciò che accadde in una fredda mattina dell'inverno del 1993. Scrive dell'archivio del capo dei capi trafugato, nascosto con il suo carico di «carte scabrose» in una caserma prima di farlo sparire per sempre.

L'autore della lettera fornisce su se stesso particolari estremamente precisi per accreditarsi come attendibile, ricorda gli avvenimenti come un protagonista che li ha vissuti, riferisce su precise azioni di reparti investigativi speciali e territoriali, insomma fa capire di essere un testimone oculare. Come per l'arresto di Totò Riina.

Quella che ai giorni nostri viene definita l'inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia ha la sua origine proprio nella cattura del boss di Corleone dopo 24 anni e 6 mesi di latitanza, dalla mancata irruzione nella casa dove si nascondeva, dalle contradditorie e ambigue dichiarazioni dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale che presero Riina il 15 gennaio 1993.

È allora che cominciano ad allungarsi le ombre su quella che fu presentata come una «spettacolare operazione» di polizia giudiziaria ma che manifestava visibilmente - da subito - alcune «anomalie». I carabinieri - allora il Ros era comandato dal generale Antonino Subranni e il suo vice era il colonnello Mario Mori, tutti e due nel 2012 indagati «per attentato a un corpo politico» nell'inchiesta sulla trattativa - arrestarono Riina e per 19 lunghissimi giorni nessuno al di fuori di loro seppe più nulla di quello che stava succedendo dentro quel covo. Formalmente dovevano tenere sotto controllo la villa, nei fatti poche ore dopo l'arresto sospesero clamorosamente ogni sorveglianza.

La cronaca di quei giorni è riassunta in quattro date. 15 gennaio 1993, il Ros convinse il procuratore capo Gian Carlo Caselli (il magistrato si era insediato a Palermo
alle 10 di quel mattino) a non perquisire il covo per tenerlo d'occhio, ma nello stesso pomeriggio abbandonò la sorveglianza «senza preavvertire alcuno ». 27 gennaio 1993, il vicecomandante del Ros Mario Mori comunicò al procuratore aggiunto Vittorio Aliquò che «l'osservazione del covo di via Bernini stava creando tensione e stress al personale operante».

30 gennaio 1993, il procuratore capo Caselli scoprì che «le attività di osservazione del complesso di via Bernini erano state invece dismesse poche ore dopo l'arresto del latitante Riina Salvatore». 2 febbraio 1993, i magistrati e i carabinieri dell'Arma territoriale entrarono in una villa «dove lo stato dei luoghi, pareti, mobili, rivestimenti, era ormai radicalmente diverso da quello proprio dei luoghi abitati».

Perché il Ros aveva lasciato il campo? Perché non aveva avvertito i procuratori? «Un disguido», si sono sempre difesi. Una manovra diversiva per permettere un blitz clandestino dentro il covo di Totò Riina, è sempre stato il sospetto dei magistrati.
N'è nata un'inchiesta dove la procura ha evidenziato tutti i «buchi neri» nella versione del Ros, poi il processo è finito con un'assoluzione per tutti. Ma subito dopo n'è cominciato un altro.

Da una mancata perquisizione a una mancata cattura. Dal covo di Totò Riina ai 43 anni di latitanza dell'altro Corleonese, Bernardo Provenzano. Secondo le tesi dei pm siciliani, Riina fu venduto e in cambio sarebbe stata garantita la libertà al ricercato numero uno d'Italia. Un altro sospetto che si è trasformato in un secondo processo, con imputati per favoreggiamento a Cosa Nostra sempre il colonnello Mario Mori e il suo vice Mauro Obinu. Pezzi di trattativa.

Cosa torna e cosa non torna in questa ricostruzione? Qualsiasi mossa abbiano fatto quelli del Ros intorno al covo, l'hanno fatta perché comandati. Non hanno deciso in autonomia in via Bernini e non hanno favorito per loro scelta - se mai verrà provato - la fuga di Provenzano. Hanno ricevuto ordini. Dall'alto. Fino a quando non si scoprirà chi ha dato quegli ordini, l'inchiesta sulla trattativa resterà incompiuta.

Cosa c'è di veramente inedito nell'ultimo anonimo? L'indicazione su chi avrebbe sottratto l'archivio di Riina. Fino a ieri sapevamo che erano stati alcuni mafiosi. Adesso qualcuno ci informa che quel tesoro è finito in una caserma.

 

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