1. IN SVIZZERA UNA BORSA IN COCCODRILLO DA 38 MILA DOLLARI NEMMENO LA TIRANO GIU’ DALLO SCAFFALE SE IL CLIENTE E’ UNA TRIPPONA NERA VESTITA DA SPAVENTAPASSERI. ANZI, OPRAH WINFREY, 360 MILIONI DI DOLLARI DI REDDITO ANNUO E 2,7 MILIARDI DI PATRIMONIO, IL VOLTO PIÙ NOTO E POTENTE DELLA TV USA, DEVE RINGRAZIARE IL CIELO SE LA COMMESSA ITALIANA DELLA BOUTIQUE DI ZURIGO NON HA CHIAMATO LA POLIZIA 2. MA CIO’ CHE E’ MALACCADUTO IN SVIZZERA E’ SOLO LA PUNTA DELL’ICEBERG DI UN RITORNO AL RAZZISMO. LO DENUNCIA L’EX SUPERMODELLA SOLMALA IMAN, SPOSA DI DAVID BOWIE: “C’È QUALCOSA CHE NON VA. ABBIAMO UN PRESIDENTE NERO, UNA FIRST LADY NERA. MA GLI STILISTI NON USANO MODELLE NERE, ALLORA NOI LI BOICOTTIAMO” 3. MA LA MODA HA SALVATO IL SUO FATTURATO IN QUESTI ANNI DI CRISI GRAZIE ALL’ASIA: ECCO PERCHE’ LA MAGGIOR PARTE DELLE RAGAZZE CHE CALCANO LE PASSERELLE SONO BIANCHE

1. «TROPPO CARA PER LEI» BORSA NEGATA A OPRAH E LA SVIZZERA SI SCUSA
Mara Gergolet per Corriere della Sera

«Vado in un negozio, che resti senza nome, e dico alla commessa: scusi, posso avere quella borsa sopra la sua testa? Lei mi risponde: no, è troppo costosa. Insisto: voglio quella nera sullo scaffale. Lei ne prende un'altra, e comincia a mostrarmela. Io insisto ancora. E lei gelida: oh, non voglio ferire i suoi sentimenti... A quel punto dico: grazie, probabilmente ha ragione, non me la posso permettere. Ed esco dal negozio».

La borsa costava 35 mila franchi (38 mila dollari). Quello che Oprah Winfrey guadagna, sonno incluso, in poco più di mezz'ora. Però Oprah, a Zurigo per il matrimonio dell'amica Tina Turner, 360 milioni di dollari di reddito annuo e 2,7 miliardi di patrimonio, il volto più noto e potente della tv Usa, al Trois Pommes non è stata riconosciuta. E allora si è presa la sua rivincita.

Un po' come Julia Roberts nella scena cult di Pretty Woman , quando dopo uno shopping spudorato a Beverly Hills ritorna vestita da signora nel negozio che l'aveva cacciata e, cinque borse in mano, fulmina la commessa esterrefatta che si era rifiutata di servirla: «Lei lavora a percentuale vero? Bello sbaglio».

Ebbene, Oprah offesa è andata alla trasmissione tv di Larry King e si è vendicata della Svizzera: «Potevo tirar fuori la carta di credito nera e tutto quanto... Invece me ne sono andata. Certo che esiste, il razzismo. Eccome se esiste».

Colpito, e affondato, un intero Paese. La proprietaria del negozio di Zurigo, Trudie Götz, ha telefonato alla Bbc , si è scusata in diretta parlando di fraintendimento. La ragazza, ha provato a spiegare, è italiana e non parla bene l'inglese. Anzi di solito non sta neppure a Zurigo ma a Saint-Moritz, frequentata da italiani. È bravissima e (come le commesse di Pretty Woman ) «riveste i clienti da capo ai piedi». Ieri mattina, con Oprah si è scusato il capo dell'Ufficio del turismo svizzero.

Però quel bollino di razzismo è difficile da lavare, l'accusa è entrata in circolo, l'intervista di Oprah è stata diffusa dalle emittenti di mezzo mondo. Tanto più che sulla Svizzera si erano aperti i riflettori ed erano piovute le critiche già nei giorni scorsi. Si è scoperto infatti che Bremgarten, 6.500 abitanti sotto le Alpi, vieta ai 150 rifugiati - che pure ospita - di frequentare i campi sportivi e le piscine.

Non solo. Nel paesino che ha poco da offrire oltre alla chiesa e al municipio sono state delineate 30 zone (scuole, piazze, casa di cura per gli anziani) dove l'accesso ai profughi è limitato o concesso solo a determinate condizioni. «È per tutelare l'ordine pubblico, funziona benissimo», spiega il sindaco, stupito dello scandalo. L'idea della segregazione, dopotutto, non è sua, lui l'ha semplicemente copiata. Le zone no-profughi esistono in altri comuni, da Eigenthal e Nottwill a Lucerna a Alpnach nel cantone di Obwalden.

E allora la Svizzera, con 48.000 persone in cerca d'asilo, il doppio della media Ue, un porto sicuro per tanti perseguitati e emigrati celebri del Novecento, il Paese della Convenzione di Ginevra, delle organizzazioni internazionali e delle iniziative di pace, sta veramente diventando insofferente?

Meno tollerante, più simile al Paese immaginato nei manifesti elettorali del partito anti-immigrati di Christoph Blocher di qualche anno fa, dove la «pecora nera» veniva espulsa con un calcio nel sedere? Due mesi fa, un referendum approvato con il 78% di sì ha molto inasprito le condizioni per ottenere l'asilo.

L'agenzia Onu per i rifugiati, Unhcr, protesta da tempo per il trattamento dei profughi, il Consiglio svizzero per i rifugiati definisce le aree no-profughi «indifendibili in termini umanitari e legali». E però, quanta pubblicità negativa in più, rispetto alle proteste Onu, possono produrre una star nera con voglia di shopping, una commessa italiana sbadata e il suo «bello sbaglio»?

2. CASA BIANCA SÌ, PASSERELLA NO LA PROTESTA DELLE MODELLE NERE
Matteo Persivale per Corriere della Sera

«C 'è qualcosa che non va. Abbiamo un presidente nero, una first lady nera. Verrebbe da pensare che le cose siano cambiate, ma non sono cambiate. Anzi, invece di andare avanti siamo andati indietro... Mi sembra che i tempi richiedano di tracciare una linea con decisione, come negli anni 60, dicendo che se gli stilisti non usano modelle nere, allora noi li boicottiamo».

A lanciare la granata con il New York Times (ieri l'International Herald Tribune ha messo l'articolo in prima pagina) è la modella somala Iman, diventata famosa in tutto il mondo negli anni 70 e 80 e ora in testa al movimento che, spiega il giornale americano, vuole fare pressione sugli stilisti a partire dalla Fashion Week newyorchese del mese prossimo per includere più modelle di colore nelle sfilate. Prendendo in prestito addirittura il lessico di Malcolm X: «Con ogni mezzo necessario».

Alleata con un'altra ex modella nera (degli anni 60), Bethann Hardison, Iman fa pressioni su Diane von Furstenberg che oltre a essere stilista è anche presidente del Cfda, il Council of Fashion Designers of America che riunisce i designer statunitensi. E se davvero partirà una campagna via Twitter e Facebook per premere sulle agenzie di modelle, le case di moda e i responsabili del casting, sarà interessante vederne le modalità e i risultati.

Come finiranno le accuse di razzismo in un mondo della moda che ha fatto di un'afroamericana (Beyoncé) e di una caraibica (Rihanna) le due donne più corteggiate e richieste, che fa a gara letteralmente per vestire Michelle Obama garante di visibilità davvero globale (tanto che non è magari una coincidenza se lo stilista che ha vestito la first lady alla cerimonia di insediamento del presidente a gennaio, il bravissimo e eccentrico Thom Browne, abbia pochi mesi dopo vinto il titolo di stilista americano dell'anno da parte del Cfda: quando la signora Obama ha indossato l'abitino stampato da 80 euro di un popolare e poco costoso marchio britannico, Asos, è andato esaurito in una settimana)?

È un fatto che ci sia la marocchina Hind Sahli a ballare nel video della nuova campagna Miu Miu, che Malaika Firth (nata in Kenya e cresciuta in Gran Bretagna) sia la nuova ragazza immagine di Prada, e soprattutto la modella numero 1 del mondo (per il sito models.com ) sia portoricana, quella Joan Smalls che lavora per nomi come Gucci, Chanel, Fendi, Cavalli, Givenchy, Lacoste, Gap, H&M, Giambattista Valli, Ralph Lauren, Versace, Stella McCartney, ambasciatrice di Estée Lauder onnipresente sulle copertine.

Se è vero che neppure Smalls abbia il profilo e la celebrità globale - anche al di fuori della moda - di Naomi Campbell (emersa negli anni 80 e oggi 43enne), va detto che non c'è più stata da allora una modella di profilo così alto come quello di Naomi. Ma le modelle superstar di quegli anni, che fecero coniare l'appellativo di «top model», non ci sono più.

Ci sono tante ragazze che lavorano tantissimo, con incarichi di altissimo profilo (Daria Werbowy, Cara Delevingne, Sasha Pivovarova, l'italiana Bianca Balti) ma non ci sono le più star come Linda (Evangelista), Christy (Turlington), Stephanie (Seymour) e Claudia (Schiffer). Bastava il nome di battesimo. Altri tempi, nella moda e fuori.

Quel che è vero, a parte episodi folcloristici come quello dello stylist nero citato dal New York Times che il mese scorso a Parigi si lamentò via Twitter di essere stato posizionato in seconda fila e non in prima, lanciando accuse di razzismo poi ritirate (un episodio di presunta discriminazione che lascerebbe perplessi gli attivisti per i diritti umani abituati a questioni più serie del seating a una sfilata), è vero che sulle passerelle la maggior parte delle ragazze sono bianche - peraltro, dell'Est europeo: a parte eccezioni, pochissime le mediterranee - e che la minoranza etnica emergente, in passerella, è asiatica, non africana o sudamericana.

Ma qui non si può non ricordare come le case di moda siano aziende i cui fatturati in questi anni di crisi stanno esplodendo grazie soprattutto all'Asia, e non a altre regioni.

 

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