cristian bucchi

“A 25 ANNI TROVAI LA MIA COMPAGNA MORTA IN CASA DAVANTI A NOSTRA FIGLIA EMILY CHE AVEVA UN ANNO E MEZZO” – CRISTIAN BUCCHI, EX ATTACCANTE DI PERUGIA, CAGLIARI E NAPOLI, RACCONTA IL SUO DRAMMA: “IL SENSO DI COLPA FU INEVITABILE. MA VALENTINA EBBE UN INFARTO FULMINANTE, NON SI SAREBBE SALVATA. PER QUATTRO ANNI HO SEMPRE PORTATO EMILY CON ME: IL CALCIATORE E LA FIGLIA INSIEME IN GIRO PER L'ITALIA CON UNA TATA. A PERUGIA COMPRAI UNA FORD FIESTA SENZA AVERE I SOLDI: LA PAGAI IN CINQUE ANNI - NEL 2009 HO SPOSATO ROBERTA LETO: NON CI SIAMO PIÙ LASCIATI”

Monica Scozzafava per corriere.it- Estratti

 

Bucchi, come ha fatto a 25 anni a superare la morte della compagna davanti a vostra figlia che aveva un anno e mezzo?

cristian bucchi

«Si fa. Per mille motivi, nessuno dei quali forse può essere compreso da chi una situazione del genere non l'ha vissuta. La forza è proprio la bambina che non può crescere vedendoti soffrire, non può sentirsi sempre e solo sfortunata perché ha perso la madre in quel modo.

 

E, allora lei, piccola, diventa il tuo mondo. Per i quattro anni successivi non l'ho lasciata mai da sola. Il calciatore e la figlia insieme in giro per l'Italia con una tata per quando facevo gli allenamenti, per le partite. Ma Emily era sempre con me anche al campo».

 

Emily era con la mamma, Valentina Pilla, la notte del 3 marzo del 2003 nella  casa di Cagliari. Lì dove giocava Cristian Bucchi impegnato quel giorno in trasferta contro il Genoa. Vittoria per 3-1, di sera torna a casa e trova la compagna senza vita e la figlia con lo sguardo fisso su di lei, senza rendersi conto di nulla.

 

 

Una scena che diventa difficile dimenticare..

«Una tragedia che fai fatica ad accettare senza cadere nella più inutile delle domande: perché è successo a me? Credo che purtroppo la vita a volte sa essere durissima, in quel momento mi sono chiesto se invece di giocare a calcio fossi stato lì, se avessi potuto far qualcosa. 

 

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Il senso di colpa iniziale è inevitabile. Valentina ebbe un infarto fulminante, non si sarebbe salvata. A Emily siamo stati tutti vicini, le abbiamo raccontato pian piano la verità, lei non ricorda, era troppo piccola. Forse è stato un bene. Io non ho mollato di un centimetro e, come è successo anche in altre situazioni non belle della mia vita, dopo  mi sono sentito addirittura più forte».

 

(...) Sono passato dai dilettanti alla serie A in un anno. Del resto, anche a scuola era uguale: al liceo scientifico studiavo tantissimo perché non tolleravo le brutte figure. Dovevo avere sempre il controllo della situazione per stare sereno. Ho frequentato anche l'Università mentre giocavo a calcio e studiavo, studiavo...».

 

Preparava un piano B?

«Se non fossi riuscito nel calcio avrei fatto il giornalista. L'idea me l'aveva data la prof di italiano. Scrivevo bene e lei diceva che i miei lavori erano interessanti, riuscivo a non essere scontato, a fornire domande e dare risposte. Quando ho smesso di giocare un po' l'ho fatto in tv, sia come opinionista che come giornalista».

 

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Poi ce l'ha fatta ma sempre un percorso a ostacoli. Grandi successi e brutte cadute. Squalificato per doping: un anno fermo. Era in rampa di lancio col Perugia in serie A, vicino alla Nazionale.

«Altra batosta, lì mi sentivo impotente. Sapevo di essere innocente ma non potevo dimostrarlo. Presi 16 mesi, poi ridotti a otto. Ancora oggi non so darmi una spiegazione. Up e down, la mia carriera è stata un po' così, ma mi rialzavo sempre mosso dalla rabbia e dalla determinazione che non dovevo mollare».

 

Si è da soli nel calcio, nel bene e nel male?

«Nel calcio sei sempre da solo. Vivi solitamente lontano dai tuoi affetti, dagli amici, dalla famiglia, dalla città dove sei nato. Costruisci qualche rapporto che poi non puoi mai tenere nel tempo, quando torni a casa ti rendi conto che ciò che hai lasciato non è più com'era prima. Sei solo perché quando ti aspetti di condividere un dispiacere, una delusione con qualcuno spesso non trovi chi ti aspetti che ci sia.  Forse per questo motivo il calcio ti rende anche forte. Io ho superato tanti limiti personali».

 

Ce ne dica uno.

«Ho cominciato a giocare perché veramente mi piaceva il pallone senza l'ambizione di dover diventare necessariamente una star. Senza manie di grandezza. Ero pigro, restio a lasciare la mia comfort zone. Non mi piaceva andar lontano, viaggiare. Sceglievo sempre la soluzione che non mi portasse troppo lontano. Il calcio mi ha invece aperto orizzonti, mi ha fatto scoprire culture, lingue e persone diverse da me. Mi ha arricchito».

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Anche economicamente...

«Sì mi ha fatto vivere al di sopra di quelle che da ragazzino erano le mie possibilità. Quando ho guadagnato non ho mai speso tanto, mi era chiaro il fatto che da mille sarei passato a zero una volta smesso. Ho diversificato, ho fatto investimenti. Mi sono garantito un futuro dignitoso».

 

Beh, un regalo folle ci sarà stato.

«C'è stato un regalo che è stata follia: comprato senza avere i soldi. Quando Gaucci mi prese al Perugia non avevo una macchina. Il contratto era di 50 milioni, ne avrei guadagnati più o meno 4 netti al mese. All'epoca gli stipendi non erano pagati mensilmente. Non avevo una lira, venivo dall'Eccellenza e comprai una Ford Fiesta 16 valvole, era il mio sogno, ma feci un finanziamento di cinque anni. Non finivo più di pagarla».

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Le amicizie nel calcio esistono?

«Esistono i legami forti, pochi. De Zerbi, Pioli: due colleghi che sento vicini».

 

Anche da allenatore la sua è una carriera di alti e bassi. Ora è fermo ma resiste..

«Certo, studio e mi aggiorno. Non è piacevole stare a casa ma vale sempre la filosofia che se lavori più degli altri puoi farcela».

 

Cosa fa oggi sua figlia Emily?

«Vive a Dubai, lavora come assistente di volo per Emirates, viaggia tanto e mi dice sempre che se fa questo lavoro lo deve a me e alla nostra storia. È stata una bimba con la valigia».

 

È sposato dal 2009 con Roberta Leto, ed ha altri due figli, Nicolò e Mathias.

«Giocavo con il Napoli, una sera vidi Roberta in televisione e, rimasi folgorato, mobilitai tutti i miei più cari amici per rintracciarla. Fino a riuscirci e ad invitarla a cena. E da allora non ci siamo mai più separati».

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(...)

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