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BALTHUS TORNA A ROMA - PARLA LA VEDOVA SETSUKO: “PER COLPA DELLA SUPERBIA E DELL’ARROGANZA STIAMO PERDENDO LA CAPACITÀ DI DIFENDERE L’EDUCAZIONE E L’AMBIENTE. L’ARTE CORRE OGGI I MEDESIMI PERICOLI. VIVE DI UNA CONFUSA CEREBRALITÀ"

Antonio Gnoli per “la Repubblica”

 

SETSUKO-BALTHUSSETSUKO-BALTHUS

Per 16 anni Balthus ha vissuto a Roma. Svolgendo il ruolo di direttore dell’Accademia di Francia in un luogo unico: Villa Medici. Ha amato e conosciuto questa città. Con leggerezza e sapienza. Giuliano Briganti, che di Balthus era amico, andò un giorno a trovarlo e raccontò di un signore elegante e bello — con una storia culturalmente straordinaria alle spalle vissuta tra Rilke e Artaud — senza idolatrie per il passato. Balthus (il cui nome era in origine Balthazar) sposò in seconde nozze una giovanissima giapponese che aveva conosciuto a Kyoto.

 

Fu come se due forme di bellezza, di grazia e di cultura si incontrassero per caso e armonizzassero di necessità. Setsuko Ideta è stata la compagna della seconda metà della vita di Balthus. Era uno spettacolo — ricorda chi li ha conosciuti — vedere i loro kimoni intonarsi perfettamente con i colori di Roma. Città così bella e distratta da sembrare un sogno felliniano. Più niente oggi somiglia a quello scampolo di vita intensa e trasandata.

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Non è tanto la volgarità e la suprema sciatteria a rendere questo paesaggio di storie culturali tramontato, ma il fatto che manca la sostanza umana. E forse fu questa la ragione che spinse Balthus e Setsuko a lasciare Roma per andare a vivere in un grande chalet a Rossinière.

 

È qui che la vedova prolunga le giornate di allora con quelle di oggi e lavora ai progetti della Fondazione, al suo ruolo di ambasciatrice dell’Unesco e alla preparazione della grande mostra che le Scuderie del Quirinale ospiterà delle opere di Balthus a partire dal 24 ottobre (a cura di Cécile Debray, catalogo Electa).

 

 

Con Balthus vi siete conosciuti nel 1962 e sposati nel 1964. Tra voi c’erano 35 anni di differenza. Le ha mai pesato?

«Non è mai stato un ostacolo. Imbevuta di letteratura francese, russa e inglese sognavo da giovane una storia d’amore drammatica come le eroine di quei romanzi. Anch’io avrei voluto incontrare un uomo a cui dedicarmi completamente».

 

Balthus come viveva questa distanza di età?

«Non era indifferente. Durante il nostro primo incontro a Kyoto mentì sulla sua vera età, togliendosi qualche anno ».

 

Le parlò mai della famiglia e del fratello Pierre Klossowski?

«Lo faceva spesso. Aveva una grande stima di Pierre e del suo lavoro di scrittore. Gli piacevano molto anche i ritratti che Pierre aveva fatto di George Bataille e di André Gide. Due figure anch’esse familiari che amava ricordare».

 

BALTHUS E SETSUKOBALTHUS E SETSUKO

Un’altra figura fondamentale è stata quella di Baladine, la madre. Come la ricordava Balthus?

«Una donna straordinaria capace di vivere con intensità il meglio che la cultura dei primi decenni del Novecento seppe esprimere. A unirli, poi, c’era il medesimo temperamento artistico».

 

Una passione esclusiva?

«Come per Baladine, l’unica cosa importante per Balthus era la pittura e come dipingere quello che vedeva. Tutto il resto passava in secondo piano».

 

Tra Baladine e Rainer Maria Rilke ci fu un’importante storia d’amore. Il poeta rivestì mai il ruolo di padre per Balthus?

«Rilke fu una presenza importante nella vita di Balthus. L’affetto tra loro era molto forte. Nonostante questo non ha mai avuto un ruolo paterno. Se c’è una cosa che fece soffrire Balthus fu la separazione dei genitori ».

 

Il padre di Balthus, Erich Klossowski, aveva origini tedesche.

«Tedesche certo, ma anche polacche. La famiglia del padre proveniva dalla casata dei Rola».

 

Per questo il suo nome per esteso è Setsuko Klossowska de Rola?

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«Sì».

 

Erich Klossowski fu anche storico dell’arte e pittore. Quando si separò da Baladine?

«In maniera definitiva mi pare nel 1917».

 

Gli anni parigini, prima della Grande Guerra, furono segnati dalla presenza di numerosi artisti.

«Erano in molti a frequentare la casa dei genitori. Tra questi Henri Matisse e Pierre Bonnard. Una volta, guardando un quadro appeso al muro, Bonnard disse a Baladine: “Non mi ricordo più quando ho dipinto questo quadro”, e Baladine rispose: “Ti confondi Pierre, sono io che l’ho dipinto”».

 

In che misura la pittura di suo marito deriva anche dalla grande esperienza artistica italiana?

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«È stata una presenza fondamentale. A 17 anni Balthus fece un lungo viaggio in bicicletta attraverso la Toscana, copiando le opere di Masaccio e Piero della Francesca. Osservando l’evoluzione del lavoro di Balthus si vede chiaramente che dal punto di vista della materia pittorica i suoi quadri si avvicinano agli affreschi del primo Rinascimento».

 

Cosa pensava dell’arte contemporanea?

«Ha frequentato molto i pittori suoi contemporanei: Derain, Miró, Picasso, Bacon, Guttuso. Nel 1963 il primo artista che Balthus mi portò a conoscere, in Svizzera, fu Giacometti».

 

Che impressione ne ricavò?

BALTHUS CON LA MOGLIE SETSUKO BALTHUS CON LA MOGLIE SETSUKO

«Molto intensa. Lo conobbi nella casa in cui era nato, insieme con la madre che mi apparve una figura emblematica della sua scultura. Durante quei giorni trascorsi insieme restai colpita dalla forza e la profondità con cui Balthus e Giacometti parlavano del loro lavoro. Un ritratto fotografico di Giacometti è appeso al muro dell’atelier di Rossinière, dietro la poltrona su cui Balthus lavorava».

 

Volevo capire meglio il giudizio di suo marito sull’arte contemporanea.

«C’è poco da capire. La sentenza era lapidaria. Negli ultimi tempi era solito dire che non esisteva più la pittura e che lui era stato davvero l’ultimo pittore».

 

Di Picasso cosa pensava?

«Ne pensava bene. Era felice che Picasso avesse acquistato un suo quadro. Scambiarono una lunga conversazione sulla pittura. Ma non credo avesse la medesima intensità di quella vissuta con Giacometti».

 

Ho scoperto che tra i collezionisti dei quadri di Balthus c’era Jacques Lacan. Lo ha conosciuto?

FELLINI 2FELLINI 2

«Certo, quando veniva a Roma ci si frequentava. Balthus lo ha anche ospitato qualche volta a Villa Medici. E, per contraccambiare, Lacan lo invitò a un convegno di psicologi da lui presieduto. Dopo aver ascoltato alcune relazioni, Balthus chiese: “Ma a voi interessa il problema della guarigione?”».

 

Cosa implicava quella domanda?

«Forse una certa ironia sulla distanza che a volte intercorre tra la teoria e la pratica analitica».

 

Accennava a Roma, dove vi trasferiste nei primi anni Sessanta. Che ricordo ne conserva?

«Indimenticabile. Era l’età aurea del cinema italiano. Frequentavamo Fellini, Antonioni, Visconti, Zeffirelli, Liliana Cavani. È stato un periodo magico della mia vita».

 

Tra i registi che ha citato un posto particolare ebbe Fellini. È così?

«Con Federico ci vedevamo spesso a Villa Medici o a Cinecittà. Ho sempre pensato che la sua visionarietà non corrispondesse alla realtà e che proprio per questo era più vera del vero.

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E poi adorava, ricordo, la bellezza dei muri di Villa Medici. Guardando quello del grande atrio della Villa, che Balthus aveva appena finito di restaurare, Fellini esclamò: “Solo tu sei capace di catturare i toni del tempo”. Se vedessero il muro oggi, dipinto di un bianco monotono, ne trarrebbero la conclusione che viviamo in un’epoca in cui il tempo è morto!»

 

È come se il tempo non depositasse più la sua esperienza. A questo proposito qual è il suo rapporto con il tempo che passa?

«È un rapporto di memoria, di incantamento e di vita che continua a scorrere».

 

Una volta ha dichiarato che la vita con Balthus è stata come viverla all’interno di un suo quadro. Cosa intendeva dire?

«Che lui l’aveva come dipinta. L’ho incontrato quando avevo vent’anni, sono cresciuta attraverso di lui, ho riscoperto la vera importanza del mio Paese di origine, ho trovato la mia strada nella pittura. Quando Balthus dipingeva, la sua mano reggeva il pennello accarezzando la tela con immensa tenerezza; allo stesso modo ha accarezzato la mia vita dipingendola su una tela invisibile ».

 

E quando lui è scomparso che fine ha fatto quella tela?

«Ne sono uscita fuori e ho cominciato a vivere in un mondo sconosciuto».

 

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Ciò che non conosciamo può provocarci paura e disorientamento. È questo che ha provato?

«Per me è stato come ritornare adolescente e vivere nell’ebbrezza dell’avventura. Ho cominciato ad accettare le proposte più diverse, tenere conferenze, scrivere un libro, diventare ambasciatrice dell’Unesco. Tutte attività che prima mi erano ignote e che mi entusiasmano alla follia. La mia nuova passione è la ceramica. Balthus diceva di essere un artigiano. Ecco,se penso a me mi piace immaginarmi come un apprendista artigiano».

 

Cosa le manca di Balthus?

«Non mi manca. Se avvertissi questo vuoto come potrei continuare a vivere? In ogni caso, un giorno farò ritorno nel suo quadro invisibile».

 

È vero che al funerale, Bono degli U2 cantò in suo onore?

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«Sì e fu un momento emozionante».

 

Cosa ricorda d’altro?

«Il giorno dei funerali, nel 2001, nella biblioteca di casa a Rossinière, ricevetti il battesimo. Bono mi fece da padrino e Verde Visconti fu la madrina. In quel momento mi sono stati molto vicini. Bono è un uomo meraviglioso, capace di grandi slanci e affetto e sempre pronto a offrirmi il suo consiglio».

 

Con suo marito lasciaste Roma, per stabilirvi a Rossinière, nel 1977. Con che spirito e quali rimpianti partiste?

«In realtà, non sono mai andata via veramente da Roma. Il giorno della partenza per la Svizzera, il treno notturno che dovevamo prendere era in sciopero. Così, molto tardi, Balthus, io, Harumi di quattro anni e la bambinaia, facemmo ritorno alla Villa. Siamo potuti partire solo la sera successiva. E fu curioso. Perché il contrattempo annullò il dolore dell’addio. Mi fece capire che ogni partenza porta in sé anche il ritorno».

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A proposito di partenze e di distacchi, da lungo tempo ha lasciato il suo Paese. Lei è nata a Tokyo. Come vive questa distanza? Ci torna volentieri?

«Tokyo è una città moderna, piena di energia e divertente. La sensazione che si ha frequentandola è che tutto cambia a ogni istante. Occorre scavare in profondità per ritrovare la tradizione».

 

C’è ancora?

«Certo, non è mai stata cancellata dall’impetuosa modernizzazione. Si tratta di due mondi che si sovrappongono senza mai confondersi. Mi chiedo, a volte, che tipo di sviluppo avremmo avuto senza la forza di certi riti e simboli».

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So che tra i piaceri di Balthus c’era anche quello di indossare il kimono. Che cosa rappresentava questo abito?

«Direi una forma di stima e di eleganza per qualcosa di molto distante dalla vita quotidiana. Ad ogni modo, durante tutto il periodo in cui sono vissuta con Balthus sono ritornata raramente nel mio Paese».

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Perché?

«Non lo so. Forse doveva essere così. Come le ho detto c’eravamo conosciuti a Kyoto, nel 1962, grazie al fatto che André Malraux — allora ministro della Cultura — aveva affidato a Balthus l’incarico di selezionare delle opere d’arte giapponesi per una mostra che si sarebbe tenuta al Petit Palais di Parigi nel 1963. E l’incontro tra noi, così fondamentale, ha forse congelato il desiderio di tornare laggiù».

 

Non ha mai provato a scongelarlo?

«In seguito sono tornata spesso nel mio Paese. Quest’anno nel mese di maggio sono stata invitata a Munakata, nella prefettura di Fukuoka, nel sud del Giappone, per un convegno sull’ecologia; a settembre sono tornata a Tokyo per una mia mostra. Sono sempre felice di ritrovare tutto ciò che conserva la dimensione autentica del mio Paese».

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Cosa le piace della contemporaneità? Cosa detesta del nostro presente?

«Oggi ci troviamo a vivere in un periodo interessante in cui tutti i valori si stanno modificando fino a essere sovvertiti. Gli esseri umani, per la loro superbia, sembrano divenuti un po’ come Niobe».

 

Niobe del mito greco?

«Sì, dove si racconta della superbia di una madre che fu trasformata in pietra.

 

In che modo c’entra con la nostra storia?

«Fu proprio pensando all’atteggiamento degli uomini d’oggi che Balthus decise di reinstallare le statue di Niobe e dei suoi figli nel giardino di Villa Medici. Era un modo per raccontare, attraverso una tragedia, il rischio che stiamo correndo.

 

 

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Per colpa della superbia e dell’arroganza stiamo perdendo la capacità di difendere l’educazione e l’ambiente. Sono i momenti fondamentali sui cui si fonderà il nostro futuro. Occorre fare qualcosa. Il mio impegno — come artista dell’Unesco — va in questa direzione. L’arte corre oggi i medesimi pericoli. Vive di una confusa cerebralità. Avverto il rumore di fondo ma distinguo sempre meno i suoni».

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