
“NON È VERO CHE ERO UN AGENTE DELLA CIA. MA QUANDO ALLENAVO LA NAZIONALE CILENA NEL ’71 DOVEVO RIFERIRE TUTTO A NIXON” – DAN PETERSON, EX ALLENATORE DELL'OLIMPIA MILANO E DELLA VIRTUS BOLOGNA DI PALLACANESTRO E LEGGENDARIA VOCE DELLO SPORT TELEVISIVO IN ITALIA, SI RACCONTA: “BERLUSCONI? UN UOMO PRATICO, COME TRUMP. CHE NON MI DISPIACE, PER INCISO. MI VOLEVA SULLA PANCHINA DEL MILAN” – “GIORGIO ARMANI? QUANDO CI INCONTRAMMO LA PRIMA VOLTA, IO INDOSSAVO UN SUO COMPLETO. LUI NON DISSE UNA PAROLA, MA NELLO STRINGERMI LA MANO MI SISTEMÒ IL POLSINO” – L’INFANZIA DURANTE LA GRANDE DEPRESSIONE, LA GUERRA, I “COMPLOTTI” JFK E MARILYN MONROE, L’ACCENTO AMERICANO E I TORMENTONI… - VIDE
Estratto dell’articlo di Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera”
Coach Peterson, cominciamo con la domanda che mezza Italia aspetta?
«Prego».
Lei è stato davvero un agente della Cia?
«No. Però...».
Però?
«Però è vero che andai ad allenare la nazionale cilena nel 1971 con i Corpi di Pace americani e che Nixon voleva sapere per filo e per segno quello che facevo laggiù, nella terra di Allende. In un certo senso, ero “in missione”».
Due anni dopo, il colpo di Stato di Pinochet.
«Lasciai Santiago del Cile dodici giorni prima».
Per venire in Italia.
«A Bologna, città “rossa”, almeno all’epoca».
d antoni dan peterson bob mcadoo
Lei è nato nel 1936. Da bambino, mentre giocava nella sua casa di Evanston, Illinois, immaginava che sarebbe diventato un allenatore di pallacanestro?
«No, c’erano altri problemi. Per esempio, la Grande Depressione. Ricordo bene il salvadanaio che ricavammo da un barattolo di marmellata: si risparmiava ogni centesimo».
[…] Poi nel 1941, l’attacco a Pearl Harbor cambiò tutto.
«Era una domenica fredda di dicembre. Io e mio fratello in salotto, mamma cuciva e papà ascoltava le notizie. Di colpo calò il silenzio. Mio padre disse: “Siamo in guerra”.
Io chiesi che cosa fosse la guerra e lui rispose: “Gente che combatte. Roba brutta”».
La sua famiglia ha combattuto?
«La sorella di mia madre, un giorno sparì misteriosamente. Sei mesi dopo, riapparve come se niente fosse stato. Soltanto in seguito conoscemmo la verità: era entrata nella squadra di J. Robert Oppenheimer e si era trasferita a Los Alamos».
Dove si stava fabbricando la bomba atomica.
«Lei era una delle telefoniste di Oppenheimer, ruolo delicatissimo per il rischio della fuga di notizie».
Se lo ricorda l’attacco a Hiroshima e Nagasaki?
«Come se stesse avvenendo adesso. Fu allora che capimmo che cosa aveva fatto mia zia. Lei piangeva in silenzio. Sposò un eroe di guerra».
Un combattente?
«Mio zio era in una delle imbarcazioni del D-Day, lo sbarco in Normandia. Sbarcò due volte, nella seconda stava per rimetterci la vita. Tornò a casa senza un graffio, ma dopo la guerra diventarono tutti alcolizzati».
Lei, però, aveva il basket.
«Papà avrebbe voluto che facessi l’avvocato, mamma l’artista. Io però osservavo papà che nuotava nel lago Michigan: decisi che lo sport sarebbe stata la mia casa».
[…] Che cosa è successo davvero a J.F. Kennedy?
«Mio padre era convinto che a ordinare l’assassinio era stato Lyndon Johnson».
E a Marilyn Monroe?
«Chi lo sa? Io ho tanti dubbi su quella morte. Ma non sono un complottista».
[…] La sua prima moglie, Sue, e i suoi quattro figli.
«Io restai ancora un po’, poi venni in Italia. La Virtus cercava un allenatore, e così...».
La stampa la accolse freddamente. Qualche titolo: «Peterson chi?».
«Cominciai nel ’73, l’anno dopo vincemmo la Coppa Italia, nel ’76 lo scudetto».
Quindi l’Olimpia Milano. Iniziò allora il periodo del celebre «sputare sangue», parole sue.
«Meneghin, D’Antoni, Gallinari. Che anni».
Poi arrivò Giorgio Armani.
«Veniva a ogni partita dell’Olimpia. Quando ci incontrammo la prima volta, io indossavo un suo completo, che mi avevano fatto su misura. Lui non disse una parola, ma nello stringermi la mano mi sistemò il polsino. La classe».
Dino Meneghin.
«Una delle persone più belle che io abbia mai incontrato. Una volta gli dissi: “Dino, io vorrei prendere Joe Barry Carroll, in qualche modo potrebbe toglierti spazio”. Dino rispose: “Coach, per me quello che conta è che vinca la squadra”. Questo è Meneghin».
[…] Il suo accento americano è irresistibile. Ma come ha fatto a non perderlo?
«Perché in Italia volevano questo! Io ero l’amico americano amato negli Anni Ottanta. Erano gli anni della cultura pop, del wrestling e del basket, erano anni in cui piaceva uno che urlava “fe-no-me-na-le!”».
E in Italia c’era un ricco imprenditore che aveva capito tutto questo.
«Silvio Berlusconi».
[…] Le piaceva Berlusconi?
«Sì, un uomo pratico, come Trump. Che non mi dispiace, per inciso. Ma io sono americano, tifo per l’America, ho votato anche Kennedy».
L’ultima volta che ha votato?
«Quarant’anni fa, per Reagan. Poi non ho più votato. Però mi lasci dire un’altra cosa su Berlusconi».
Prego.
«Molti pensano che sia stato solo un uomo ricco e spregiudicato, ma lui sapeva essere anche raffinato. Una sera mi invitò a cena e sa chi c’era a tavola? Walter Cronkite, una leggenda del giornalismo mondiale. Silvio aveva avuto l’accortezza di accostare le nostre due personalità, di americani e di giornalisti».
È vero che Berlusconi la voleva per allenare il Milan?
«Sì, diceva che io potevo allenare qualunque cosa». […]