ALLOCUZIONE PER LA GIORNATA DELLE SANTE MISSIONI
C'E' UN CONTINUARE A SENTIRSI VIVI IN SÉ E UN SENTIRSI VIVI PER DELEGA
ECCO LA DIFFERENZA TRA UN VOLONTARIO LAICO E UN VOLONTARIO CONFESSIONALE

Testo di Aldo Busi per Dagospia

Continuare a essere vivi per intero, cioè il minimo, è l'impresa più ardua; mi fa venire in mente un volontario che passi la sua esistenza - il suo essere vivo - nell'assistere un altro in coma ventiquattro ore su ventiquattro, nutrendolo, pulendolo, curandolo senza mai ricevere in cambio un segno di vita e comprandogli oltretutto tutto lui di tasca sua, flebo, medicine, pannoloni, senza alcun fondo o donazione o contributo esterni. Ovviamente i due non sono parenti né amanti né amici, i due non si sono mai conosciuti prima, non si conoscono ora ed è quasi da escludere che si possano conoscere in futuro.

Dove trovi questo volontario la costanza di rinnovare la sua energia vitale e pragmatica e organizzativa - e che non ha una pur remotissima ombra di afflato mistico o filantropico - per fare quello che fa avendo come unico scambio sensibile la fissità di qualcuno che né è vivo né è morto né dà segni di miglioramento è un mistero, oltre che un miracolo nervoso dal quale è esclusa l'ostinazione, l'ambizione di farcela, e la stessa speranza (la speranza si stanca presto, meglio tenerla fuori: spegne le forze, mica le rianima) di riportare alla coscienza un essere umano ridotto a una sussistenza vegetativa che non dà risposta alcuna da una vita.

Il continuare a essere vivo di questo volontario esclude, nel caso fortunato in cui il malato si desti dal coma, il sentirsi bravo, ripagato, il cantare vittoria sulla pregressa vanità del nostro sforzo finalmente non più a vuoto. Ma anche chi si ridesta dal coma è altrettanto raro che attribuisca il merito a chi, se è saggio, non si attribuisce niente: l'unico modo per continuare a sentirsi vivi è continuare a assistere un essere umano in coma (profondo, quanto profondo!) vada come vada - la massima delle ricompense, del tutto intima e che non si può certo sfoggiare impunemente, è la poco consolante congettura che dedicarsi anima e corpo a un essere umano in coma è la mera condizione per non diventare comatoso come lui.

In generale direi che continuare a essere vivi sarà pertanto un continuare a essere vivi per un principio di necessità più che di convenienza, per l'ineffabile pneuma della vita in sé senza conseguenze visibili, palpabili, condivise, remunerative, rassegnandosi più al dissenso e all'indifferenza che non contando su un qualche consenso e solidarietà; sarà un continuare a essere vivi non certo per i risultati che ciò comporta a te o all'essere umano in coma su cui ti impunti, non certo per la soddisfazione che se ne trae: si è vivi esattamente, e crudelmente, come l'altro in coma.

Assistente (ma si fa per dire: di sicuro assiste se stesso) e assistito, ognuno è vivo e allo stesso tempo morto e disattivato rispetto all'altro, ognuno con le stesse possibilità dell'altro sia di piombare improvvisamente nel sonno della mente sia di risvegliarsi alla vita - con la rara eventualità di potere per una frazione di istante far sapere all'altro l'esistenza dell'uno che li unisce o che li ha uniti in una vera e propria guerra di cui non c'è, e non resta, traccia (mi sembra di vederlo, questo essere umano che dal letto del coma balza in su col busto, scende con scioltezza e si regge saldamente in piedi e si allontana dalla stanza nel pieno delle sue ritrovate facoltà senza rendersi conto che forse non ha fatto da solo tutto quel percorso dal nulla al qualcosa e senza neppure che il volontario, ai piedi del letto, si frapponga sul suo passo per ricevere quantomeno il saluto finale che gli dia la certezza che lui c'è stato o che almeno ha fatto il possibile per esserci, anche se al risveglio da quel coma di quell'essere umano ciò che potremmo chiamare la spinta esterna non è servita né tanto né poco).

Chi continua a vivere solo perché trae da un suo sacrificio una risposta e una gratificazione che lo faccia sentire utile umanamente o professionalmente è meno vivo di chi continua a sacrificarsi (espressione alquanto impropria: anche il più strenuo sacrificio dopo un po' diventa un banale e abitudinario respirare) senza ricevere in cambio niente, né da sé né da altri e né per sé né per l'altro - non dico il sorriso che dischiuda un minimo orizzonte per l'assistito, ma almeno una falange che a un tratto si muove, una parola improvvisamente biascicata dopo anni di torpore, un segno qualsiasi di vita che rompa il coma totale. Continuare a parlare a qualcuno che non risponde al fine di sollecitargli una comunicazione almeno tra sé e sé nel proprio cervello - che non dà segni palesi di essere ancora in funzione - richiede di continuare a essere vivi infinitamente di più che se si ottenesse un effetto positivo per ogni nostro gesto per quanto frutto di resistenza alla fatica e allo scoramento patiti in segreto non importa da quanto a lungo.

Se non c'è differenza tra un essere umano in coma profondo e un altro essere umano in coma profondo, c'è però una differenza - di vitale importanza - tra volontario e volontario anche se sembrerebbe che entrambi facciano la stessa cosa per lo stesso tempo con la stessa competenza, sacrificio di sé, dedizione, dispiegamento - e spreco apparente - di energie ecc.: il solco incolmabile tra i due volontari sta tra neutralità intellettuale fine a se stessa (il che è una tale conquista umana di per sé che non può essere poi volta a ulteriore raggiungimento e perfezione di alcun altro fine fuori da sé) e interesse ideologico strumentale a un fine ulteriore; la neutralità intellettuale mira, se mira a qualcosa, all'autonomia dell'altro, l'interesse ideologico mira a creare dipendenza istituzionale individuale e collettiva, fosse pure a sacrificio della vita stessa del volontario in missione; la neutralità intellettuale perde potere - non quello politico, cui non aspira, ma il potere delle sue forze vitali stesse, e non accumulando potere perde perfino credibilità -, l'interesse ideologico del volontario ma missionario il potere lo accumula o lo fortifica.



Perché c'è successo e successo, c'è sconfitta e sconfitta, c'è solitudine e solitudine, c'è, infine, un continuare a sentirsi vivi in sé e un sentirsi vivi per delega: ecco la differenza sostanziale tra un volontario laico e un volontario confessionale, e non capirò mai perché si parli esclusivamente del secondo e mai del primo - lo capisco, ovvio, ma la cosa mi avvilisce: il volontario confessionale gode della grancassa promozionale di una chiesa e di un sistema economico inerente la beneficenza, il volontario laico è considerato un pericolo sociale perché antieconomico, un esempio infido e viene pertanto addirittura rimosso da ogni possibile riferimento e memoria.

Quanto agli esiti dell'operato del volontario in generale, chi fallisce al minuto ma ha una causa superiore da portare avanti è ripagato infinitamente di più di chi riporta un successo immanente non passibile di esulare dalla sua momentaneità per confluire in un fine ulteriore e atemporale col conforto aggiunto di tutta una burocrazia dell'opera di bene da monte e a valle, e figuriamoci quanto sia ripagato chi riporta non solo un successo al momento ma in più può già incanalarlo in quel suo fine superiore a maggior gloria di una causa e di una chiesa (è già tanto se costui già che c'è ogni tanto si dimentica del suo fine superiore e non gli dà ogni precedenza sul fine immediato verso l'afflitto che sarebbe tenuto a curare). Il volontario laico, inoltre, se opera da solo è da solo sempre, e spesso isolato se non proprio ostacolato e deriso, mentre il volontario missionario è più che mai insieme a una moltitudine, idealmente se non di fatto e tanto più di fatto quanto più idealmente, per quanto si trovi da solo.

E' tanto se entrambi non si ricevono in cambio del loro sacrificio infezioni, torture, pugnalate, pallottole, ma mentre il laico ci rimette la vita, il missionario ci guadagna una morte - penso a una certa volontaria laica che in Africa è stata ammazzata dopo trent'annni che assisteva genti ammalate di tubercolosi abbandonate a se stesse: un volontario laico in trasferta (e lo è anche stando a casa sua, non necessariamente in Uganda) è più vivo, più intelligente, più coraggioso di un volontario religioso in missione, perché il laico deve trovare in sé e per sé la forza di fare ciò che fa attimo per attimo, con o senza risultati ed escludendo da subito dalla sua visione l'interferenza di un'eco e di un premio di stima, senza contare sulla lungimiranza propagandistica per il bene di una chiesa, mentre al religioso non importa di fallire lui di volta in volta se il trionfo finale di un'istituzione fideistica è pur sempre il suo punto di vista energetico, la ragione che lo anima.

Un volontario laico vive e muore in sé e lo sa e ha solo fini primi e immediati, sincronici al suo operato e alla sua abnegazione; un religioso, per quanto bravo e costante e amorevole, è corroborato dal fanatismo psichico - una vera e propria ingenuità intellettuale dalle devastanti conseguenze morali - di fare ciò che fa per un ulteriore fine, un bene ideologico superiore. Il missionario vince anche quando perde, non gli può andare che meglio non si può, il laico perde e basta e gli sta bene così; il missionario, anche se è sconfitto sul campo del momento, accumula sconfitta dopo sconfitta la certa speranza di una vittoria altra e conclusiva che travalica il suo sacrifico personale al minuto, mentre il laico valuta di volta in volta e se perde anche la vita niente e nessuno - nemmeno gli stessi ammalati nemmeno se una volta guariti - può avvalersene per fare incetta di propaganda pro domo sua e sentire accresciuto il proprio potere politico.

Quando noi restiamo ammirati da certi preti o suore sul cui innegabile sacrificio sappiamo tutto - mentre del sacrificio dei laici non veniamo a sapere mai niente, nemmeno che sono esistiti e che tuttora esistono - dovremmo dirci almeno che è un sacrificio a metà, un sacrificio con un enorme tornaconto non meramente subliminale, e che se fossero stati davvero in gamba come ce li dipingono avrebbero fatto quello che hanno fatto facendolo per intero, cioè facendolo senza che direttamente o indirettamente ne traesse beneficio nessun altro, ente o chiesa o istituzione che sia, a parte gli afflitti su cui si sono piegati mantenendo per il resto la schiena dritta.

E la domanda che dobbiamo farci è: se questi benemeriti missionari avessero agito fuori da quella chiesa, da quella fede, da quel fine superiore avrebbero saputo fare quello che hanno fatto, visto che, se anche non hanno fatto niente o non sono riusciti a niente, sapevano che alle lunghe avrebbero preso infinitamente di più di quanto non hanno dato? Mediocri nell'aiuto come sono, visto che prestare aiuto è spesso un fine secondario come tanti rispetto al fine primario cioè superiore, è probabile, senza tutta quell'impalcatura dietro e sotto e Sopra, che questi volontari religiosi sarebbero riusciti sì a portare in scena tutti gli afflitti, i lebbrosi, gli immunodeficienti, i menomati, i deboli che assicurano audience ma non una sola benda per avvolgere almeno la piaga del decubito prescelto.

E' innegabile che un volontario laico della vita sia più vivo di un volontario missionario della chiesa, cui basta essere vivo a metà, pensare a metà, sentire a metà, dire a metà, offrire a metà: mentre il laico vuole per l'altro suo simile l'interezza della vita come vuole continuare ad averla per sé, il missionario, avendone già metà per sé, non può che aspirare alla metà della metà per ogni altro - e il resto al mostro onnivoro della sua ideologia di potere.

Ecco perchè i veri criminali dell'umanità sono proprio quei rari santi e i martiri e i beati di ogni religione che, armati di bontà, altruismo e autentico sacrificio di sé, col loro encomiabile e fulgido esempio vanno a ingrassare, consapevoli o no, i vizi obbrobriosi e le tenebre politiche di una gerarchia di crapuloni debosciati scrocconi sanguinari che li annette per farsene scudo, esibirli alla pubblica ammirazione e credulità e così perpetuarsi unti da un Dio senza né colpo ferire né, ovviamente, l'incomodo di un dio né l'intralcio di un umano che, malgrado tutto, continua a restare vivo per intero anche per chi, se non è in coma, è vivo a metà o anche meno.


Dagospia 21 Settembre 2006