ODO GELLI FAR FESTA/10 - IL BRACCIO DI FERRO CON IL GRAN MAESTRO SALVINI. ALLA FINE VIENE NOMINATO MAESTRO VENERABILE IN CAMBIO DELL'IMPEGNO A "RENDERE PALESE" LA LOGGIA P2. MOSSA CHE NON FARÀ MAI.

Tratto da "Licio Gelli - Parola di Venerabile", di Sandro Neri, Aliberti Editore


Un colpo di stato in Italia, nel 1970, non sarebbe stato ben visto dagli americani? Risulta che fosse già stato redatto il piano Demagnetize che prevedeva, sono parole dell'allora capo di Stato Maggiore generale Inzerilli, «l'utilizzo di ogni azione possibile per evitare in Francia ma soprattutto in Italia l'avvento al potere del Partito comunista». Le chiedo: davvero gli Usa erano contrari a un golpe nell'Italia del Sessantotto e dell'Autunno caldo?
Che fossero contrari non è detto. In quegli anni in Italia c'era un partito comunista ben organizzato. Forse gli Usa avrebbero lasciato fare per poi intervenire favorendo la nascita di un movimento unico democratico. Credo che il problema di Borghese fosse il mancato appoggio di strutture militari e di ufficiali delle forze armate. Forse, a parole, c'era chi gli aveva garantito un appoggio. Ma erano personaggi che al primo allarme si sarebbero dileguati. Per fare le rivoluzioni servono gli eserciti. E Borghese non era De Lorenzo.

Chiarisca.
Personalmente, reputo l'azione del 7 dicembre 1970 un atto dimostrativo. Che ha il suo culmine nella presa delle armi al Viminale. Il tentativo di Giovanni De Lorenzo invece era più serio: lui aveva l'esercito in mano. Se non fosse stato fermato, avrebbe senz'altro portato a termine il suo progetto di colpo di stato.

Ma l'Italia non era la Grecia dei colonnelli. Pensa che comunque gli Usa potessero ritenere un golpe possibile e necessario?
Necessario poteva anche sembrarlo. Non dimentichi il clima della guerra fredda. In quel periodo un italiano militante comunista non poteva mettere piede negli Stati Uniti. Ma nel caso del Tora-Tora mancavano le premesse per realizzare un colpo di stato. E infatti, a mio parere, chi doveva presentarsi all'appuntamento quella notte non l'ha fatto. E a mezzanotte e mezzo era già tutto finito.

Quale appuntamento, scusi?
Il piano dei congiurati, che immagino diviso in più fasi operative, dopo la presa delle armi al Viminale doveva prevedere l'incontro del gruppo con qualcuno. Questo per poter passare alla fase successiva. È possibile che all'appuntamento questo qualcuno non si sia presentato e di conseguenza sia stato impartito il contrordine.

Risulta che la frase in codice pronunciata per annullare il tutto sia «Il lupo non è stato trovato nella tana». Si è parlato di un generale e del suo aiutante in campo che non risposero all'appello dei congiurati. Nei suoi successivi colloqui con Borghese non gli ha mai chiesto cosa fosse successo esattamente?
Lui continuava a parlare dell'azione come di una barzelletta. «Non è vero nulla» diceva. Ne parlammo, una volta, anche a un pranzo a Roma, presenti, oltre a noi due, Edgardo Sogno e un generale di cui ora non ricordo il nome.

Di cosa parlaste, esattamente?
Di molti argomenti, in verità. Soprattutto degli errori che erano stati compiuti in Italia. Vidussoni, Mezzasoma detto "il biondino", l'assassinio di Ettore Muti che consideravamo una vendetta di Badoglio.

Lo sospettano in molti. Su quale base?
Quella mattina, il 24 agosto del '43, Muti era nella sua casa di Fregene; vennero a svegliarlo i Carabinieri, all'alba. Lui conviveva con una giovane donna, straniera e bellissima. I Carabinieri dissero a Muti di seguirli immediatamente al Comando. Non gli lasciarono neppure il tempo di vestirsi. Lo portarono via in pigiama, e appena fu fuori di casa l'uccisero. La sua donna, dalla finestra, fece in tempo a sentire delle voci concitate e Muti che diceva: «Ma io sono della vostra stessa parte» Me lo raccontò lei, il pomeriggio che mi recai sul posto. Le dalie, lungo il vialetto, erano ancora sporche di sangue. Badoglio temeva il carisma di Muti, temeva potesse organizzare qualcosa.

Ed è di questo che parlaste con Sogno e Borghese.
Parlammo, mi ricordo bene, anche dell'esilio di re Umberto. Eravamo tutti nostalgici della monarchia.

Junio Valerio Borghese, leader del Fronte nazionale, più che un nostalgico era un uomo d'azione. Entrato nel Movimento sociale, ne era diventato presidente per uscirne subito dopo a causa della sua insofferenza per il parlamentarismo.
Certo che era un uomo d'azione. Durante la guerra era stato decorato con la medaglia d'oro per gli attacchi compiuti in sommergibile contro le navi britanniche. Era, soprattutto, un uomo di lunga esperienza e di grande cultura. Poi si è ammalato, ed è cambiato un po'.

Stefano Delle Chiaie, leader del gruppo eversivo Avanguardia Nazionale, attribuì la morte del principe Borghese a un caffè «opportunamente corretto». Un omicidio, insomma.
Non credo. Borghese morì perché gravemente malato. Nel 1974, a Cadice. Non c'è alcun giallo dietro la sua fine.



Lo storico e politologo Giorgio Galli, nel suo saggio "La massoneria italiana", scrive che «è impensabile, nell'Italia del 1970, un colpo di stato guidato dal comandante della X Mas. È invece pensabile un colpo di avvertimento alla Dc, nell'ambito di una strategia volta a farne il perno di una stabilizzazione».
Non sono d'accordo. Borghese godeva ancora di una grande credibilità. Aveva dato tanto alla patria, che amava profondamente. Direi, invece, che della Dc se ne infischiava. Se progettò un golpe, lo fece con altre prerogative.

Di un presunto colpo di stato, da attuare secondo le direttive del Piano Solo, parla un appunto dattiloscritto proveniente dal suo vecchio archivio privato. Gliene leggo alcuni passaggi: «La punta di maggior responsabilità venne affidata all'Arma dei Carabinieri, avendo loro un'organizzazione più estesa in Italia, più capillare per il rastrellamento di coloro che dovevano essere arrestati e trasportati in Sardegna e chiusi nel campo di addestramento degli agenti speciali». Precisa anche che «i particolari dell'intervento, dopo averlo scartato, vennero inceneriti per non lasciare tracce». A che anno risale tutto questo?
Credo al 1971 o al '72. Erano solo discorsi. Se ne facevano tanti, si parlava anche di donne.

Nella primavera del 1973, qui a Villa Wanda, si tiene un vertice con alcuni dei massimi responsabili delle forze di sicurezza. Da testimonianze risulta che in quella riunione viene decisa una fase della strategia della tensione. Quella che si delineerà nel 1974 e che culminerà nell'escalation degli attentati.
Sì, convocai quelle persone - c'erano il generale Giovambattista Palumbo, comandante della divisione Carabinieri di Milano, il colonnello dei Carabinieri Antonio Calabrese, il generale Franco Picchiotti, della divisione Carabinieri di Roma, il generale Luigi Bittoni, comandante della brigata Carabinieri di Firenze, il colonnello dei Carabinieri Pietro Musumeci e il procuratore generale presso la Corte d'Appello di Roma, Carmelo Spagnuolo - ma per una riunione assolutamente informale. Un incontro fra persone che si conoscono e si frequentano. Ricordo che chiudemmo la giornata con un bellissimo spuntino. Si parlò della situazione italiana, che in quel momento era difficile. Si parlò soprattutto delle pressioni di alcuni grandi Paesi esteri. Ci chiedevano chi ci avrebbe difeso dall'avanzata della sinistra, ma certo non per questo noi eravamo lì a complottare.

Tra i presenti, l'ha appena ricordato lei stesso, c'era Carmelo Spagnuolo, procuratore generale di Roma. Il governo di centrodestra Andreotti-Malagodi era in crisi; la Dc puntava a un ritorno del centrosinistra. Una delle ipotesi è che quella riunione dovesse servire a mettere a punto un piano per un governo d'emergenza guidato, sembra, proprio da Spagnuolo.
Quella riunione fu soltanto una delle tante che vennero convocate in quegli anni. Tutte vedevano la presenza di generali delle forze armate, dell'Arma dei Carabinieri o di uomini politici. Quanto a Spagnuolo, quando era in servizio a Milano, sembrava dovesse diventare capo della Polizia. Era presidente della Repubblica Giovanni Leone e il suo segretario personale, Valentino, mi disse che un improvviso attrito col Quirinale bloccò la candidatura di Spagnuolo. Colpa, se ricordo bene, di un'intervista rilasciata al giornalista Massimo Caprara. In quanto procuratore generale, nel 1973 Spagnuolo rivestiva uno dei più alti gradi in magistratura dopo quello dello stesso Leone. Ma certo aver perso la possibilità di diventare capo della polizia l'aveva ferito; credo gli interessasse molto di più.

Di lì a poco l'Italia si sarebbe divisa sul tema del divorzio. L'approvazione della legge si era rivelata uno choc per certi ambienti conservatori, che promossero un referendum abrogativo caldeggiato soprattutto da cattolici e neofascisti. La massoneria, per decisione del Gran Maestro, si tenne fuori; l'abrogazione della legge non passò. Nella P2 come venne vissuto questo passaggio?
Ci sembrava incredibile. Temevamo, come possibile conseguenza sul lungo periodo, lo smembramento delle famiglie, una rivoluzione incontrollata dei costumi. Di fronte alla questione del divorzio il Paese si divise. Gli italiani votarono in un certo modo, noi non potemmo far altro che prenderne atto. Come tutti.

Nel 1974 il generale Vito Miceli viene arrestato nell'ambito dell'inchiesta sulla Rosa dei venti e a dicembre la riunione della Gran Loggia, a Napoli, decide la "demolizione" della P2. Il Goi la stava scaricando. Perché?
Non erano state gradite le nostre aperte difese di Miceli, cui andava invece tutta la nostra solidarietà per essere finito in carcere. Ritenevamo, in particolare, che Giovanni Tamburino, giovane magistrato titolare delle indagini sulla Rosa dei Venti, arrestando il capo dei servizi di sicurezza fosse andato un po' oltre. Entrare in quelle stanze, dicevo, non era un suo diritto. È da prese di posizione come queste che nacquero le discussioni animate di Napoli. Alla fine la P2 ne sarebbe uscita più forte di prima.

In quel momento, in realtà, Salvini vuole sciogliere la P2 e ne parla con i Venerabili. Poi scrive ai fratelli coperti, invitandoli a trasferirsi in altre logge. Cos'era successo?
Che la P2 aveva ormai in mano tutta l'opera di assistenza che gravava sul Grande Oriente. Salvini veniva periodicamente qui a casa mia, portandosi dietro la borsa piena di lettere, tutte richieste d'aiuto di fratelli. Chi chiedeva una mano per essere trasferito, chi una promozione sul lavoro, chi un prestito in banca, chi una raccomandazione per essere sicuro di superare un concorso. La P2, grazie al fatto che aveva uomini in tutti i settori, riusciva a soddisfare ogni richiesta. Fanelli, il segretario della loggia, rispondeva brevemente a tutti i fratelli, allegando le lettere di segnalazione. Salvini temeva che alle successive elezioni per la Gran Maestranza tutti avrebbero votato per me, mentre io non avevo alcuna voglia di candidarmi. Scrisse quindi a tutti gli iscritti alla P2, promosse anche una sorta di referendum, ma alla richiesta di aderire a una loggia regolare tutti i fratelli risposero di no. Avevano tutti esigenza di mantenere la riservatezza. Anzi, qualcuno minacciò di andarsene rispetto alla prospettiva di non poter più far parte di una loggia coperta. Va detto che Salvini era a volte costretto, da alcune circostanze e persone interne alla massoneria, a prendere alcune posizioni.

In realtà mi sembra che Salvini prendesse, almeno in quel periodo, nettamente le distanze da lei. Quasi si preoccupasse della piega che stava prendendo la P2 grazie alla sua singolare autonomia.
Però le lettere che Lino mi scriveva a titolo personale erano di tenore opposto. Nonostante qualche dissenso su fatti specifici, i nostri rapporti sono rimasti sempre corretti e - per usare un termine giusto - fraterni. Forse, dietro alcuni suoi atti c'erano le pressioni del Partito socialista, a cui era iscritto. Aveva fatto l'errore di non restituire la tessera neppure dopo la sua elezione a Gran Maestro. Sbaglio gravissimo, perché la massoneria deve essere al di sopra degli schieramenti di partito.

Alla fine del braccio di ferro lei verrà nominato Maestro Venerabile, in cambio dell'impegno a «rendere palese» la loggia P2. Mossa che lei non farà mai.
A Napoli parlai pubblicamente a una delegazione di Maestri Venerabili, convocata da Salvini. Spiegai che una loggia, se riservata, può lavorare più liberamente, senza suscitare rivalità o intromissioni. Tutti, alla fine, decisero di sostenere la P2: perché la sua attività era garanzia del potere della massoneria. Il patto prevedeva che la loggia potesse essere ispezionata solo dal Gran Maestro. Per capirsi, in massoneria esistono degli ispettori che hanno il compito di vagliare i lavori delle logge. La P2, in questo, rappresentava un'eccezione: perché solo Salvini aveva il diritto di ispezionarla. Il Gran Maestro o persona da lui delegata.

10 - Continua


Dagospia 30 Novembre 2006