SOTTOSVILUPPO ITALIA - L'AGENZIA PUBBLICA DEL TESORO E I SUOI 462 POSTI D'ORO: POCO LAVORO, STIPENDIO DA NABABBI - DA TRE MESI C'È UN NUOVO AD, DOMENICO ARCURI, UOMO DI D'ALEMA, CHE ASSICURA: CON ME BASTA SPRECHI - SI ASPETTA LA REPLICA DI MASSIMO CAPUTI.
Mariano Maugeri per "Il Sole 24 Ore"
«Una banca anomala, in cui i soldi si prendevano e non sempre si restituivano». Domenico Arcuri, 43 anni, da poco meno di cento giorni amministratore delegato di Sviluppo Italia, non usa le parole a caso. Se dipendesse da lui, «restituirebbe il maltolto ai contribuenti » perché di tutto si è occupata l'Agenzia pubblica del Tesoro fino alla primavera scorsa, data del suo arrivo al vertice, tranne che di sviluppo, investimenti, programmazione.
Tutto quello che sa lo ha imparato alla Luiss di Roma, di cui è stato prima studente e docente, e poi scalando le posizioni di vertice di Arthur Andersen prima e Deloitte dopo. Per dopo s'intende all'indomani della clamorosa cantonata che la società di consulenza prese certificando i bilancio di Parmalat, Cirio e Giacomelli. Un'autentica truffa con dramma per i risparmiatori e conseguente crollo di credibilità della società medesima che toccò proprio ad Arcuri fronteggiare, chiamato in fretta e furia al vertice per una missione che lui ha ribattezzato «memorabile turnaround».
Quella volta, l'inversione a U gli è riuscita. Da allora lo accompagna la fama di uomo per le imprese impossibili. Quando lo convoca, Massimo D'Alema gli pone secca secca una delle questioni che lo assilla dal giorno in cui è stato nominato ministro degli Esteri: «In giro per il mondo incontro decine di imprenditori che mi pongono una sola domanda: vorremmo investire in Italia. Ci dica a chi possiamo rivolgerci».
Dopo una sequela di risposte imbarazzate agli interlocutori internazionali, il ministro degli Esteri spiffera al suo collega di partito e di governo, Pier Luigi Bersani, il nome giusto per rimediare ai disastri della holding pubblica che nacque per attirare investimenti dall'estero e far germogliare nuove aziende, ma in soli cinque anni si è trasformata in un mostro con 17 società regionali, 15 controllate (che a loro volta hanno 25 subcontrollate), 124 società partecipate.
Dentro le scatole societarie 339 uomini che avrebbero dovuto gestirle (168 consiglieri di amministrazione, 93 sindaci e 78 membri degli organismi di vigilanza, cui si aggiungono 153 consiglieri nominati da Sviluppo Italia nelle società partecipate). In totale fanno 492 componenti che hanno intascato sei milioni di euro l'anno di soli compensi. Per far che cosa?
A questa domanda Domenico Arcuri, reggino purosangue anche se da anni vive a Roma, si scalda: «Per generare disordine e disperdere valore. E le potrei elencare decine di casi a dimostrazione di quello che dico. Un dato su tutti: quando sono arrivato il gruppo aveva 1.800 dipendenti, di cui il 63% dedicato ai servizi di staff e il 37% alle attività di line, cioè a produrre ricavi. Di più: la catena di comando è quantomeno bizzarra: un dirigente governa 2 quadri e tutti gestiscono 5 impiegati. E mi fermo qui per amor di Patria».
Un esercito fatto di generali. Generali con stipendi alti, amici influenti e la virtù dell'obbedienza. E i soldi dove sono finiti? Arcuri dà un indizio: «Su 230 milioni di ricavi 2006, il 55%, circa 130 milioni, sono stati affidati all'esterno. E non sempre erano soldi legati ai progetti. Curioso per una società di 1.800 persone! Ma ora abbiamo voltato pagina. La domanda che oggi mi pongo però è un'altra: mentre accadeva tutto questo dov'erano la politica, il sindacato, i mass media? Se si escludono le inchieste del Sole-24 Ore, nessuno ha tentato di capire cosa accadesse in una società che faceva acqua da tutte le parti con i soldi dei contribuenti».
Adesso Arcuri vuole fare sul serio. Il Governo Prodi, bontà sua, ha deciso che anche l'Italia, come tutti i Paesi del mondo civile, debba e possa avere un'agenzia pubblica al servizio dello sviluppo. Che serva ad attrarre investimenti esteri, a sviluppare i territori, a creare imprese. Una struttura leggera e il più possibile virtuosa.
Riusciranno Arcuri e i suoi uomini a disboscare le società regionali («tranne Calabria e Campania, dove le resistenze all'azzeramento sono fortissime », mette le mani avanti l'amministratore delegato), dimezzare gli organici (da quasi 1.800 a 750), ridisegnare l'architettura societaria facendo leva su tre società (impresa, territorio, investimenti esteri)? Tra il "liquidiamo tutto" di Romano Prodi e l'elefantiasi di Massimo Caputi, amministratore delegato dei tempi d'oro, c'è la terza via di Bersani e Arcuri. Certo, si potrebbe obiettare che pure il candido Arcuri qualche passo falso rischia di compierlo. La politica bussa incessantemente alla sua porta.
Ma lui ha in mente di resistere: «Chi ha detto che non si possa dire no?» E le assunzioni di Bernardo Mattarella e la consulenza di Gabriele Visco, figlio del viceministro dell'Economia? «Prima di essere due validissimi professionisti, sono due colleghi con i quali ho già lavorato e di cui mi fido ciecamente. Non solo. Come pochi altri hanno avuto il coraggio, per non dire l'incoscienza, di seguirmi in questa avventura senza rete. E poi, a proposito di consulenze, mi piace ricordare che al mio arrivo trovai oltre 500 tra consulenti e contrattisti a tempo, un numero chiaramente spropositato».
Il problema è che il metodo, se di metodo si può parlare, non è cambiato. Così come il ministro Tremonti s'improvvisò cacciatore di teste per scegliere l'amministratore delegato Massimo Caputi, ora D'Alema e Bersani si giocano la loro credibilità su Arcuri. Il tempo ci dirà chi ha fatto la scommessa giusta. Anche se la ricostruzione del nuovo a.d. suona come una critica durissima per la vecchia gestione. Una domanda, però, è ineludibile: possibile che l'azionista pubblico non contempli concorsi trasparenti per ruoli di questa rilevanza?
Prima di congedarsi, Arcuri butta lì una battuta alla mission impossible: «Sa cosa mi ha detto l'ex ministro dell'Economia del Governo Berlusconi, che ora fa il banchiere d'affari a Londra (Domenico Siniscalco, ndr)? «Ma sei pazzo ad andare in un posto del genere?». Rassicuro Siniscalco: non sono pazzo, ho solo l'ambizione di rimettere insieme i pezzi di questa macchina disastrata. A una sola condizione, però: di continuare a lavorare con il ministro Bersani. Se dipendesse da me, lo ibernerei in via Veneto (sede del ministero dello Sviluppo economico, ndr). Sappiate che quando farà le valigie, speriamo il più tardi possibile, me ne andrò dietro di lui».
Dagospia 03 Settembre 2007
«Una banca anomala, in cui i soldi si prendevano e non sempre si restituivano». Domenico Arcuri, 43 anni, da poco meno di cento giorni amministratore delegato di Sviluppo Italia, non usa le parole a caso. Se dipendesse da lui, «restituirebbe il maltolto ai contribuenti » perché di tutto si è occupata l'Agenzia pubblica del Tesoro fino alla primavera scorsa, data del suo arrivo al vertice, tranne che di sviluppo, investimenti, programmazione.
Tutto quello che sa lo ha imparato alla Luiss di Roma, di cui è stato prima studente e docente, e poi scalando le posizioni di vertice di Arthur Andersen prima e Deloitte dopo. Per dopo s'intende all'indomani della clamorosa cantonata che la società di consulenza prese certificando i bilancio di Parmalat, Cirio e Giacomelli. Un'autentica truffa con dramma per i risparmiatori e conseguente crollo di credibilità della società medesima che toccò proprio ad Arcuri fronteggiare, chiamato in fretta e furia al vertice per una missione che lui ha ribattezzato «memorabile turnaround».
Quella volta, l'inversione a U gli è riuscita. Da allora lo accompagna la fama di uomo per le imprese impossibili. Quando lo convoca, Massimo D'Alema gli pone secca secca una delle questioni che lo assilla dal giorno in cui è stato nominato ministro degli Esteri: «In giro per il mondo incontro decine di imprenditori che mi pongono una sola domanda: vorremmo investire in Italia. Ci dica a chi possiamo rivolgerci».
Dopo una sequela di risposte imbarazzate agli interlocutori internazionali, il ministro degli Esteri spiffera al suo collega di partito e di governo, Pier Luigi Bersani, il nome giusto per rimediare ai disastri della holding pubblica che nacque per attirare investimenti dall'estero e far germogliare nuove aziende, ma in soli cinque anni si è trasformata in un mostro con 17 società regionali, 15 controllate (che a loro volta hanno 25 subcontrollate), 124 società partecipate.
Dentro le scatole societarie 339 uomini che avrebbero dovuto gestirle (168 consiglieri di amministrazione, 93 sindaci e 78 membri degli organismi di vigilanza, cui si aggiungono 153 consiglieri nominati da Sviluppo Italia nelle società partecipate). In totale fanno 492 componenti che hanno intascato sei milioni di euro l'anno di soli compensi. Per far che cosa?
A questa domanda Domenico Arcuri, reggino purosangue anche se da anni vive a Roma, si scalda: «Per generare disordine e disperdere valore. E le potrei elencare decine di casi a dimostrazione di quello che dico. Un dato su tutti: quando sono arrivato il gruppo aveva 1.800 dipendenti, di cui il 63% dedicato ai servizi di staff e il 37% alle attività di line, cioè a produrre ricavi. Di più: la catena di comando è quantomeno bizzarra: un dirigente governa 2 quadri e tutti gestiscono 5 impiegati. E mi fermo qui per amor di Patria».
Un esercito fatto di generali. Generali con stipendi alti, amici influenti e la virtù dell'obbedienza. E i soldi dove sono finiti? Arcuri dà un indizio: «Su 230 milioni di ricavi 2006, il 55%, circa 130 milioni, sono stati affidati all'esterno. E non sempre erano soldi legati ai progetti. Curioso per una società di 1.800 persone! Ma ora abbiamo voltato pagina. La domanda che oggi mi pongo però è un'altra: mentre accadeva tutto questo dov'erano la politica, il sindacato, i mass media? Se si escludono le inchieste del Sole-24 Ore, nessuno ha tentato di capire cosa accadesse in una società che faceva acqua da tutte le parti con i soldi dei contribuenti».
Adesso Arcuri vuole fare sul serio. Il Governo Prodi, bontà sua, ha deciso che anche l'Italia, come tutti i Paesi del mondo civile, debba e possa avere un'agenzia pubblica al servizio dello sviluppo. Che serva ad attrarre investimenti esteri, a sviluppare i territori, a creare imprese. Una struttura leggera e il più possibile virtuosa.
Riusciranno Arcuri e i suoi uomini a disboscare le società regionali («tranne Calabria e Campania, dove le resistenze all'azzeramento sono fortissime », mette le mani avanti l'amministratore delegato), dimezzare gli organici (da quasi 1.800 a 750), ridisegnare l'architettura societaria facendo leva su tre società (impresa, territorio, investimenti esteri)? Tra il "liquidiamo tutto" di Romano Prodi e l'elefantiasi di Massimo Caputi, amministratore delegato dei tempi d'oro, c'è la terza via di Bersani e Arcuri. Certo, si potrebbe obiettare che pure il candido Arcuri qualche passo falso rischia di compierlo. La politica bussa incessantemente alla sua porta.
Ma lui ha in mente di resistere: «Chi ha detto che non si possa dire no?» E le assunzioni di Bernardo Mattarella e la consulenza di Gabriele Visco, figlio del viceministro dell'Economia? «Prima di essere due validissimi professionisti, sono due colleghi con i quali ho già lavorato e di cui mi fido ciecamente. Non solo. Come pochi altri hanno avuto il coraggio, per non dire l'incoscienza, di seguirmi in questa avventura senza rete. E poi, a proposito di consulenze, mi piace ricordare che al mio arrivo trovai oltre 500 tra consulenti e contrattisti a tempo, un numero chiaramente spropositato».
Il problema è che il metodo, se di metodo si può parlare, non è cambiato. Così come il ministro Tremonti s'improvvisò cacciatore di teste per scegliere l'amministratore delegato Massimo Caputi, ora D'Alema e Bersani si giocano la loro credibilità su Arcuri. Il tempo ci dirà chi ha fatto la scommessa giusta. Anche se la ricostruzione del nuovo a.d. suona come una critica durissima per la vecchia gestione. Una domanda, però, è ineludibile: possibile che l'azionista pubblico non contempli concorsi trasparenti per ruoli di questa rilevanza?
Prima di congedarsi, Arcuri butta lì una battuta alla mission impossible: «Sa cosa mi ha detto l'ex ministro dell'Economia del Governo Berlusconi, che ora fa il banchiere d'affari a Londra (Domenico Siniscalco, ndr)? «Ma sei pazzo ad andare in un posto del genere?». Rassicuro Siniscalco: non sono pazzo, ho solo l'ambizione di rimettere insieme i pezzi di questa macchina disastrata. A una sola condizione, però: di continuare a lavorare con il ministro Bersani. Se dipendesse da me, lo ibernerei in via Veneto (sede del ministero dello Sviluppo economico, ndr). Sappiate che quando farà le valigie, speriamo il più tardi possibile, me ne andrò dietro di lui».
Dagospia 03 Settembre 2007