FELICITÀ È FARE LA SPIA (IL SECONDO MESTIERE PIÙ ANTICO DEL MONDO) - STORIA E CRONISTORIA DELLO SPIONAGGIO, DA GERICO A TELECOM - LE INTERCETTAZIONI SONO ORMAI IL NOSTRO ROMANZO D'APPENDICE.

Marco Filoni per "Il Riformista"


C'è una sorta di felicità, di piacere immenso, nello spiare. Entrare nelle vite degli altri, carpirne i segreti e i lati nascosti. Un piacere legato all'ascoltare occulto e al sapere. Perché ascoltare è sapere. Così come spiare è una forma di conoscenza. Tutta la storia dell'umanità è anche una storia di segreti captati, rubati, origliati. Frammenti di conoscenza dei quali non siamo i destinatari. (...) Del resto non siamo molto dissimili da quell'emigrato russo di Vladimir Nabokov, che popola il mondo fragile e illusorio di una Berlino inizio Novecento descritto ne "L'occhio".

Qui lo scrittore fa ricorso a tutto il suo bagaglio in tema di specchi, riflessi e sdoppiamenti, e fa dire al suo personaggio: «Ho capito che l'unica felicità a questo mondo sta nell'osservare, spiare, sorvegliare, esaminare se stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po' vitreo, leggermente iniettato di sangue. La felicità è questo, lo giuro!».

In fondo Nabokov ci dice quello che siamo: esseri mortali e finiti, curiosi e desiderosi, per questo sempre pronti a prestare l'orecchio. Inutile lamentarsene. Ma oltre il piacere fuggevole di momenti rubati alla sfera intima e personale di qualcuno, la dinamica dell'ascolto e quella dello spiare investono logiche di senso ben più ampie e complesse. Al grande occhio vitreo e sanguigno dobbiamo ormai affiancare un grande orecchio. Un apparato uditivo, preciso e tecnicamente perfetto. Che ascolta. Ascolta tutto. E per questo impone una riconsiderazione della dialettica fondamentale dell'ascolto. Una dialettica apparentemente basata sulla parola. (...)

Va così ristabilita la giusta gerarchia dei sensi. La modernità ha elevato la vista a paradigma e senso supremo del nostro tempo: ai mezzi di comunicazione basati sugli occhi abbiamo affidato il racconto - esplicito e superficiale - della nostra epoca. L'epoca, appunto, dell'immagine. Forse oggi è il momento di una riabilitazione dell'udito. I suoni, la possibilità di riprodurli, registrarli e scambiarli, sono infatti diventati un sistema che è entrato e regola le nostre vite. Clandestinamente. L'udito è il senso del controllo politico. Lo dimostrano le cronache quotidiane. Lo aveva capito Leibniz, quando immaginò, ben prima che Bentham descrivesse il Panoptikon, un palazzo dotato di tubi segreti, tali da permettere al padrone di casa di ascoltare tutto quanto veniva detto e fatto tra i suoi servi e i suoi ospiti.

A partire da queste stesse considerazioni, Peter Szendy inizia la sua ricognizione dell'ascolto e delle sue facoltà. E quel grande orecchio prende forma, assume sembianze umane e presenti. Il repertorio descritto nelle pagine che seguono è composto di fantasmi. Anzi, uno soltanto e maledettamente reale: il fantasma dell'ascolto. Si traccia così l'archeologia della sorveglianza uditiva, che Szendy ricostruisce attraverso la rappresentazione artistica dell'ascolto.

Oltre ai muri anche le opere hanno orecchi. Ecco allora l'universo degli spioni fittizi, quelli consegnati alle opere liriche, ai libri, ai film. Dagli spioni mandati a Gerico nella Bibbia all'Orfeo di Monteverdi, dal Fantasma dell'opera di Leroux al Don Giovanni di Mozart, e via sino ai film di Hitchcok, Brian de Palma o Francis Ford Coppola. Personaggi all'ascolto o sotto ascolto, intercettati e uditi. Letti insieme a Nietzsche, Adorno, Deleuze, Foucault e Derrida. Passando per le analisi di Roland Barthes sulle tre età dell'ascolto, o anche l'animale nella Tana di Kafka, l'orecchio mortale di Orfeo, la morte di Wozzek: sono insieme l'origine e i limiti delle varietà dell'ascolto che qui vengono disegnate.

Il tutto per tracciare l'affinità strutturale fra l'ascolto e lo spionaggio. Il risultato è una filosofia dell'ascolto, un sapiente affresco della facoltà uditiva e dei suoi usi. Ma non solo. Queste pagine hanno un valore aggiunto. Szendy dice in apertura del libro che, cercando più scritti possibili sullo spionaggio, si sente un po' come il personaggio interpretato da Robert Redford nei Tre giorni del condor - il film di Sydney Pollack nel quale un agente segreto passa il suo tempo ad analizzare libri da tutto il mondo affinché possa scoprire codici o messaggi cifrati, fin quando s'imbatte veramente in un segreto criptato che lo coinvolgerà in un complotto.

In qualche modo Szendy assomiglia davvero a quel personaggio: anch'egli si mette all'ascolto, di chi ascolta e di chi è ascoltato, e trova una chiave di lettura che restituisce in questo saggio. Non scopre complotti, è vero, ma ci dà la possibilità di uscire dal suo schema interpretativo e, proprio attraverso questo schema, applicarne la dinamica alla realtà. Una realtà, oggi come non mai, in ascolto.

Viviamo in un'epoca in cui la sorveglianza planetaria è un fatto, una delle maggiori angosce dell'uomo moderno. L'ascolto è oggi un dispositivo, per usare i termini della biopolitica. Cimici, microspie, il sistema Echelon e lo spionaggio globale: tutti, in qualsiasi momento, possiamo esser uditi e intercettati senza saperlo. Il fantasma dell'ascolto non è relegato ai nostri sogni, ma affolla le nostre veglie. Un grande orecchio ci spia. Ma chi vi si nasconde dietro? Chi, realmente, ci ascolta? Chi è questo controllore che chiamiamo spia, informatore, delatore, agente segreto, confidente, spione? Proviamo a delinearne la fenomenologia.

Le spie esistono da sempre. Come ricorda Szendy, è «il secondo mestiere più vecchio del mondo». «Ma con meno principi morali del primo», continua la citazione tratta dai due studiosi di spionaggio W.G. Hanne e Phillip Knightley. Seppur esistano da sempre, il nostro immaginario è stato catturato dalle spie solo a partire dagli inizi del Novecento e soprattutto in Gran Bretagna. Qui le spie erano necessarie per via dell'immenso impero britannico che ricopriva un quarto delle terre: avere informazioni per controllare un'estensione così vasta era condizione indispensabile della sua stessa sopravvivenza.

È nel contesto della lotta fra la Russia e l'impero britannico per il controllo dell'Asia centrale, giocata principalmente sull'intelligence e sul saper prevenire alleanze e opposizioni delle tribù locali, che nasce il «Grande Gioco» - espressione resa famosa da Kipling in Kim. Inizia così la trasposizione delle spie nei romanzi: eroi coraggiosi, riservati, poliglotti e pieni di risorse.

Abilissimi in qualsiasi prova fisica e capaci di sventare ogni sorta di complotto. Agivano nella massima segretezza e per questo risultavano seducenti e pieni di fascino. Molti scrittori di questa narrativa sulle spie erano stati a loro volta ex agenti del servizio di intelligence britannico: Compton Mackenzie, W. Somerset Maugham o Eric Ambler. I modelli, le spie vere che realmente giocarono il Grande Gioco, erano raffinati ragazzi della buona società - il più famoso fu il nobile Lawrence d'Arabia, professore di archeologia che in realtà organizzò la rivolta degli arabi contro l'impero ottomano per conto di Sua Maestà.

Se poi dipaniamo la trama sullo spionaggio dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo con la saga di James Bond creata da Ian Fleming la spia di maggior successo di tutti i tempi: gran viveur, amante del buon vino come di bellissime donne, tanto abile a letto quanto nella lotta contro gli agenti nemici del KGB. L'epica delle spie coraggiose e affascinanti diviene ancor più di massa quando ai romanzi si affiancano vari film di successo che celebrano questa figura.



Nel frattempo cosa succede nella realtà? Quali sembianze assumono i figli e i nipoti dei protagonisti del Grande Gioco? Se la spia è celebrata sugli schermi, nella vita reale si sostituiscono alle tinte forti di gesta eroiche i colori sbiaditi di una grigia parodia. Le spie non sono più gli eleganti rampolli dell'aristocrazia, intelligenti, pieni di risorse e ineguagliabili seduttori. Assomigliano piuttosto al capitano Gerd Wiesler, l'agente della Stasi nel recente e bellissimo Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck.

Spie che intercettano chi intercettato non dev'essere. Questo avviene perché è finita l'epoca dell'informazione, quella che faceva dire a Ben Kinsley rivolgendosi a Robert Redford ne I signori della truffa: "C'è una guerra là fuori, amico mio. Una guerra mondiale. E non ha la minima importanza chi ha più pallottole, ha importanza chi controlla le informazioni. Ciò che si vede, si sente, come lavoriamo, cosa pensiamo, si basa tutto sull'informazione!".

Non è più così. Un tempo l'informazione era tanto più cara quanto più era nascosta. Oggi invece è cambiata la prospettiva: la democrazia richiede trasparenza, è anzi trasparenza. Ciò significa che l'informazione è divenuta «aperta», si è trasformata in «una risorsa negoziabile, un oggetto di scambio, un bene di mercato che tanto più acquista valore quanto più è visibile», come ha scritto Francesco Merlo dalle colonne di Repubblica . All'informazione si è sostituita l'informazione elaborata, una cosmesi della realtà che risponde al mercato della Paura. Non sempre. Ma troppo spesso.

Oggi le informazioni che valgono, quelle segrete e nascoste, quelle cioè da spiare e intercettare perché hanno più valore, sono quelle che riguardano la vita privata, la sfera intima, il sesso, o magari quelle riferite ai propri cari. A Londra, buona parte degli agenti segreti è pagata per incollarsi ai buchi delle serrature di modelle, amanti di ministri, prostitute. Mitterand dal canto suo faceva spiare le attrici. Ma se è vero quanto diceva il capo della Stasi Marcus Wolff - uno che di spie se ne intendeva - ovvero che «il valore di un servizio segreto è il valore dei propri committenti», allora all'Italia spetta senza dubbio un encomio speciale. Nessuno più di noi italiani ha familiarità con l'arte dell'origliare.

La parola intercettazioni ricorre nelle nostre cronache più che in qualsiasi altro paese del mondo. La storia recente dell'Italia è legata al «filo» del telefono di arbitri e soubrette, politici e dirigenti, imprenditori e volti della televisione. Siamo il paese europeo che più usa il dispositivo dell'intercettazione. Spendiamo più che altrove per spiare chiunque. Ma non solo: quella delle intercettazioni è diventata un'epica parallela. Quasi un genere. Meglio del teatro e della letteratura, solo la realtà declinata al telefonino. Non c'è scandalo italiano degli ultimi anni che non sia stato raccontato nella forma e secondo la grammatica, il lessico e la sintassi dell'intercettazione telefonica.

Dalla politica al calcio, dalla televisione al mondo economico, la forma del racconto propria all'intercettazione è diventata ormai il racconto della storia. E se non bastasse, è stata creata un'apposita centrale di spionaggio illegale alla quale venivano commissionate intercettazioni illecite: ma non in una cantina buia di un qualche palazzo isolato di periferia, bensì nella sede del più grande operatore telefonico nazionale, niente meno che l'erede del ministero delle poste e delle telecomunicazioni. Senza alcun dubbio, in fatto di spionaggio e intercettazioni siamo perciò il popolo eletto.

Ogni popolo eletto ha il suo messia. Il nostro corrisponde al nome - sublime destino e ironia della storia - di Pio Pompa. A nessuna geniale mente narrativa sarebbe riuscito di partorire dalla propria immaginazione un tale personaggio - almeno così come è emerso dalla cronaca dello scandalo che lo ha coinvolto. La realtà vince sempre sulla fantasia per eccesso. Del resto Pio Pompa non è che un emblema, almeno fra quelli noti, di una fenomenologia dello spione surreale e parossistica inscritta all'interno di un mercato dell'informazione occulta. Però reale.

Un caso, certo: il singolo non fa l'intero. E il mondo complesso dello spionaggio non si risolve in questo emblema. È sicuro tuttavia che siamo distanti dalle rappresentazioni di Szendy, dove spie di ogni genere come Yu Tsun non perdono nessun elemento, cercano il dettaglio, passano e ripassano al vaglio ogni singolo aspetto fino a ingrandirlo a dismisura per comprendere la portata del tutto. Il buon Dio alberga nel dettaglio, diceva Aby Warburg.

Del resto non possiamo nemmeno lamentarci troppo. Ricordiamoci di quanto diceva Marcus Wolff. Ognuno ha gli spioni che si merita. E lo sviluppo storico dell'intercettazione telefonica non fa altro che confermare come le vicende italiane non siano accidentali, ma coinvolgano processi profondi della nostra cultura e della società - nonché del loro controllo e della spettacolarizzazione che se ne può fare. In Italia preferiamo creare dettagli anziché comprendere e analizzare quelli esistenti. Del resto siamo l'unico paese nel quale l'intercettazione è diventata uno status-symbol. Sono spiato dunque sono. Se non si è intercettati non si è nessuno e non si fa carriera - tanto che gran parte di coloro coinvolti in loschi affari, poi scoperti tramite le intercettazioni, ancora prosperano e godono di ottima salute mediatica. La causa, forse, va ricercata anche in certo giornalismo e nella sua involuzione.

Un tempo i giornali di gossip erano animati da un punta di invidia e rivalsa sociale, quindi facevano le pulci a vip, ricchi e aristocratici. Poi è arrivata un'intuizione: l'interesse per i ricchi e potenti ha due lati. Da una parte è invidia e si nutre di cattiveria; dall'altra è adorazione e si nutre di bontà. Ecco allora che il giornalismo pettegolo si trasforma nell'ufficio stampa dei famosi, concordando ogni notizia con gli agenti o con personaggi alla Lele Mora o Fabrizio Corona. In quest'ottica è il dispositivo stesso che viene messo in causa: le intercettazioni necessarie e sacrosante della magistratura rappresentano l'ultimo lascito e ritornano a svolgere la funzione di una tradizione sepolta dal gossip, dalle televisioni e dai giornali che le ripropongono solo perché il popolino (cioè, noi tutti) goda ad ascoltare le bassezze dei potenti - e poi parlarne.

Queste e altre vicende ci riportano al significato politico dell'ascolto. Spiare, ripetere, registrare, sorvegliare: sono strumenti del potere. E le tecnologie ormai digitali e computerizzate dell'ascolto si inscrivono al centro di questo dispositivo. Ascoltare e memorizzare significa poter interpretare e possedere la storia, manipolare la cultura di un popolo, canalizzarne la violenza e le speranze. Non è un caso che i regimi totalitari fecero di queste dialettiche strumenti di repressione e mantenimento del controllo. Hitler scriveva nel '38 che senza gli altoparlanti non avrebbe mai conquistato la Germania; Zdanov dieci anni dopo gli faceva eco prospettando le condizioni della felicità sovietica nell'esistenza del grande orecchio politico. Il potere totalitario ha compreso la portata della dimensione dell'ascolto.

E il Novecento con la sua tecnologia ne ha moltiplicato le funzioni. Sino a quella, indispensabile per il potere, di registrare e archiviare. Non a caso la facoltà di registrare, ricordare cioè le cose dette, era insieme al far la guerra e l'affamare un popolo una delle tre prerogative essenziali degli dèi nelle società antiche. Tenere a memoria, possedere e poter raccontare la storia, diffondere la parola, manipolare le informazioni: da sempre sono attributi dei poteri civili e di quello religioso, dopo le Tavole delle Leggi. Fino all'era industriale, erano prerogative del Tiranno e di Dio, il primo volendo essere il secondo. Poi è arrivata la democratizzazione di questo potere un tempo occulto e nascosto. Da mezzo di controllo sociale sembra esser diventato un mezzo di manipolazione sociale.

Oggi intercettare significa che il potere non si accontenta più di mettere in scena la propria legittimità: ascolta e riproduce la società che dirige. E la società stessa utilizza il medesimo dispositivo per ascoltare e riprodurre il potere. Una logica perversa che moltiplica esponenzialmente le centrali di ascolto, gli origlianti e gli origliati, i ricattanti e i ricattati, in un vertiginoso incrociarsi di relazioni di affari e di potere in cui tutti controllano tutti. Perché i regimi totalitari novecenteschi monopolizzavano l'emissione delle informazioni e controllavano la parola per istituzionalizzare il silenzio degli altri.

Oggi questa canalizzazione dell'ascolto ha preso una forma nuova, meno violenta e più sottile: le intercettazioni si scambiano alla censura, diventano oggetto di consumo, si utilizzano per catalizzare l'attenzione dell'opinione pubblica. Se si vuol censurare qualcuno, non serve altro che gettare in pasto alla fucina mediatica qualche intercettazione che lo riguarda. Parole che passano attraverso il telefono, la tecnologia che ha aperto e chiuso il Novecento. Dal telefono a internet e al telefonino: ecco la forma che ha assunto il grande orecchio e che sembra far andare il mondo. Aveva ragione Giorgio Manganelli, quando scriveva: quest'anno il telefono si porta all'italiana, con la cimice!


Dagospia 04 Marzo 2008