UN LIBRO PER L'ESTATE? LEGGETEVI "UN POLLASTRO A HOLLYWOOOD" DI DAVID H. STERRY
HUMOUR! EROS! ROMANCE! POP! STUPRO! ROCK! SODOMA & HOLLYWOOD DA MARCIAPIEDE PAOLO GIORDANO: "LA VERA VITA DA MARCHETTA DELL'AUTORE. STILE TERSO, FRIZZANTE"
HUMOUR! EROS! ROMANCE! POP! STUPRO! ROCK! SODOMA & HOLLYWOOD DA MARCIAPIEDE PAOLO GIORDANO: "LA VERA VITA DA MARCHETTA DELL'AUTORE. STILE TERSO, FRIZZANTE"
1 - RECENSIONE DI PAOLO GIORDANO, VINCITORE PREMIO STREGA
«La storia è quella di un ragazzo che, più o meno ripudiato dai genitori, finisce a Hollywood dove viene subito stuprato. Prima frigge polli in un fast food, poi fa il marchettaro, infine l´attore. È la vera storia dell´autore, David Henry Sterry. Ma quel che mi ha affascinato di "Un pollastro a Hollywood" (Adelphi, pagg. 219, euro 18) non è tanto la trama, quanto la scrittura, tersa, essenziale, eppure non asciutta, ricca di aggettivi inventati, di espedienti linguistici che rendono tutto molto colorato, pop, frizzante.
Potente. Il gioco sembra disinvolto ma in realtà è studiato, e il tono scherzoso è usato per raccontare vicende molto drammatiche. All´apparenza il protagonista appare cinico, interessato solo ai soldi. Alla fine però gli episodi si sommano e creano in David un malessere che esplode nel finale. Un vuoto, sì, presente anche nei miei personaggi, raccontato senza nominarlo, lavorandoci intorno.
Mi è piaciuta molto la descrizione dell´infanzia, fatta di episodi insignificanti ripescati nel suo mondo ovattato di bambino come se stesse scavando alle origini del malessere, senza sapere, senza capire. Anche noi non capiamo, ma avvertiamo uno specchio tra presente e passato. E un filo continuo costruisce il disagio che appare come qualcosa che c´era già». (A cura di Susanna Nirenstein per "la Repubblica")
2 - LO STANGONE SEXY
Tratto da "Un pollastro a Hollywood" di David Henry Sterry (Adelphi)
Sono davanti al teatro cinese, nel bel mezzo di questo venerdì sera hollywoodiano, e guardo le im¬pronte delle mani di Marilyn Monroe.
«Marilyn... che donna! ».
Uno stangone nero mi guarda. E la prima persona con cui parlo a Los Angeles che non sia una suora. « Sì... Marilyn... ». Parlo a vanvera.
«La mia donna diceva che era grassa, ma per me una femmina deve avere un culo da far vedere » sen¬tenzia il nero, che indossa una maglietta nera con scritto SEXY in letterine argentate.
«Eh sì, una donna deve avere un culo». Cerco di stargli dietro.
«E poi, Marilyn era una star. Mica le stronzette che ci
sono in giro adesso. Stile zero. Cessi col culo secco... ». Il nero con la maglietta SEXY Si mette a camminare. Io mi aggrego. Mi sembra l'unica cosa da fare. «Di dove sei?» mi chiede.
Non so come rispondere. In questo momento non sono di nessuna parte, e mi monta un panico che è come un calcio nelle palle. Poi mi ricordo di aver letto su una rivista che quanto sei in ansia o in¬cazzato non devi far altro che cambiar disco nella testa. Sostituire i pensieri negativi con quelli positivi. Così cambio disco. Sono a Hollywood, un posto pieno zeppo di gente fantastica che viene qui da tutte le parti del mondo, e io sono uno di loro.
«Ho detto: "Di dove sei?"» ripete SEXY.
«Un po' di qua, un po' di là...». Mi sforzo di fare l'indifferente.
«Ci sono stato» risponde lui.
Rido, ride, ridiamo insieme.
«Dove abiti?» chiede.
«In giro... ». Provo un sorriso da uomo di mondo, ma non funziona troppo.
«Ehi, hai fame? Ti andrebbe una bistecca? » chie¬de SEXY.
Bistecca. Sì. Buona. Bistecca. È l'idea migliore che abbia sentito dal tempo in cui Berta filava, co¬me dice mia madre.
Lui cammina e io con lui, parlando del più e del meno. Da Hollywood Boulevard prendiamo una traversa dove c'è un condominio che un tempo probabil¬mente era bianco calce ma ora è di un grigio sporco.
Dalla strada entriamo in un ingresso desolato che puzza di sbornia, di cicche e di piscio di gatto; poi saliamo su per una scala buia dove occhieggiano orchi malvagi, e infiliamo un corridoio con una mo¬quette arancione marcio insanguinato.
Apre una porta e mi fa strada in un appartamento buio. Mamma e papà non avevano previsto che po¬tessi trovarmi in una situazione del genere e non mi avevano preparato ad affrontarla; così lo seguo sen¬za batter ciglio.
Se fosse stata la scena di un film avrei gridato al protagonista: «No, non entrare!»
Ma non sto guardando un film, quindi entro, bello baldanzoso. Non penso ad altro che alla mia bi¬stecca.
SEXY accende una luce piuttosto tenue, ed eccomi sotto gli occhi di una negrita che mi osserva da un poster con i suoi stivali alti e stretti, gli hot-hot¬pants, i capelli afro a fungo atomico e una bocca che promette sensazioni indescrivibili. Foxy Chocolate, c'è scritto sul poster, o qualcosa del genere.
Mi siedo su un triste divano troppo stagionato. La te¬levisione è accesa e ci nevica dentro. Lo stangone con la maglietta SEXY scompare in cucina. Penso di chia¬mare mio padre. Mi guardo intorno: niente telefono. Cadaveri di antichi pasti surgelati in vassoi d'allumi¬nio, carcasse di polli freddi, latte di birra di dimensioni industriali che sormontano come lapidi le tombe delle bottiglie - ma niente telefono. Cerco di concentrarmi sullo spettacolo che si intravede oltre la nevicata: dei concorrenti tutti esaltati e un demonio mellifluo con un abito sbrilluccicante che gli fa vincere qualcosa so¬vreccitando la platea che gli sbava dietro.
SEXY compare con due bistecche rosa su due piat¬ti verdi.
Solo due bistecche rosa su due piatti verdi.
«La fame è il miglior condimento» dice sempre la mamma. E io ho fame.
Il profumo mi inonda e l'animale carnivoro che è in me comincia a ringhiare; le ghiandole salivari pompano un copioso fiume di succhi gastrici giù per la gola mentre affondo i denti nella carne, il su¬go sanguinolento mi irrora la lingua, il boccone caldo mi scivola giù nel gargarozzo.
In men che non si dica resta solo il piatto verde.
Improvvisamente mi sento le palpebre come due casseforti buttate giù da un grattacielo. Non ho dor¬mito molto stanotte, e neanche ieri notte. Ho avuto un sacco di incubi.
«Vuoi stenderti? ». La voce baritonale dello stangone SEXY mi scivola addosso come un frappè al cioccolato.
Stendermi. Sì. Voglio stendermi. Buona idea. Mi porta nella sua camera da letto nera. Dormo in piedi, e mi trascino verso il letto che aspetta di abbrac¬ciarmi. Mi tolgo le scarpe e le poso sotto una seggiola scassata che sembra mio zio Ronnie quando tornava dal pub. In un angolo una vecchia giacca sta stravaccata come una pantegana. Una scarpa di pel¬le di lucertola tira fuori la lingua. La bistecca è calda e succulenta, e resta lì come un criceto nella pancia di un serpente mentre mi sdraio su quello schifo di materasso.
Crollo.
(.)
Dei razzi rossi mi scoppiano dentro, affondano nelle mie viscere sodomizzate e mi conficcano lame di dolore nel cervello. Mi sono tagliato tendini, in¬crinato costole, frantumato dita dei piedi, spaccato la testa, rotto il naso, ma non ho mai sentito uno strazio simile.
Non vedo niente. Non sento niente. Non tocco niente. Non sento nessun odore, nessun sapore. Solo dolore.
Cerco di tirarmi via, ma non posso muovermi. Non so come abbia fatto, ma l'uomo alto con la ma¬glietta SEXY mi è entrato dentro, incredibilmente grosso e violento, e mi tiene infilzato. Preme col pet¬to sulla mia schiena, il braccio destro sotto di me, l'alito caldo che mi puzza sul collo; mi blocca la spalla con la mano, ringhiandomi nell'orecchio co¬me una bestia che divora il cibo e mi punisce con la sua furia brutale, scavandomi un buco dentro.
Il primo senso che torna a funzionare è l'olfatto, e il tanfo di birra rancida e di fluidi corporali muffi del materasso mi sparano in faccia.
Poi viene l'udito. Mentre mi violenta mi chiama troia da quattro soldi e finocchio.
Ora va tutto al rallentatore. Io libero il braccio de¬stro e conficco con forza l'osso del gomito nella morbida cartilagine del suo pomo d'Adamo. Lui emette un gemito, come un risucchio di dolore mentre scatta all'indietro, annaspando a fatica con un respiro asmatico.
Me lo tira fuori, e io mi sento improvvisamente, meravigliosamente vuoto. Ora mi muovo in fretta - puro istinto animale -, e mentre lui ansima sul letto afferro le scarpe, mi fiondo fuori dalla stanza, inciam¬po e sbatto l'alluce contro il divano. Sento il mio cer¬vello che dice: «Alluce sbattuto contro divano», ma non c'è dolore. Spalanco la porta, schizzo nel corri¬doio, scendo tre scalini alla volta, esco in strada e cor¬ro più veloce che posso sul marciapiede caldo.
Rallentando appena nell'aria fresca di prima mattina o fine notte mi infilo le scarpe da basket rosse. Non mi fermo ad allacciarle. Mentre mi fiondo in Hollywood Boulevard e la notte del venerdì lascia spazio al sabato mattina, i vampiri si affrettano a nascondersi per non farsi ri¬durre in polvere dal primo raggio di sole. C'è puz¬zo, come dentro un portacenere. I lampioni non sono ancora spenti, e il freddo e il buio resistono al mondo come se la notte cercasse disperatamente di non morire.
Avanzo barcollando sopra e sotto stelle evane¬scenti; l'adrenalina anestetica comincia a esaurirsi e il dolore torna a invadermi, cominciando dal buco del culo e diffondendosi dappertutto come una pre¬senza pulsante.
Compare una nube densa di lacrime. Mi fa tutto male. Me lo sono meritato, ma non voglio piangere. Non ho ancora capito come funzionano le lacrime.
Zoppico con una smorfia sulla faccia, cauto, cer¬cando di non respirare troppo, a testa bassa; sogno a occhi aperti di non cadere giù dalla faccia della terra, oltrepasso i tossici, gli ubriaconi, le puttane af¬famate e i tizi infoiati che non se le possono permettere.
Dio buono sono così stanco. Riesco a malapena a mettere un piede davanti all'altro. Ma la paura che SEXY mi stia alle calcagna mi mette il fuoco al culo e mi fa andare avanti a tutta birra.
Mi sento bagnato tra le gambe. Infilo una mano nei pantaloni: sono zuppo di un liquido caldo e denso. Tiro fuori la mano: è rossa del mio sangue. Neanche avessi ammazzato qualcuno. Poi metto una mano in tasca. Anche i ventisette dollari se ne sono andati affanculo.
Dagospia 13 Luglio 2008