DITE AI SIGNORI DALLA QUERELA FACILE CHE DIFFAMARE NON SEMPRE È VIETATO - NON LO DICE DAGOSPIA MA LO SANCISCE STRASBURGO IL DIRITTO DEL GIORNALISTA A RICORRERE A "ESAGERAZIONI E PROVOCAZIONI".

Marcello Sorgi per La Stampa


Ce ne vorrà per far digerire all'Italia, Paese che soffre più di altri di anomalie in materia di informazione, una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha riconosciuto, accanto alla «libertà giornalistica», il diritto al «ricorso a esagerazioni e provocazioni».

In questo senso, è scritto nella sentenza, «la condanna di un giornalista per diffamazione» può rappresentare «un'ingerenza nella sua libertà di espressione» ed è giustificata soltanto in casi specifici e «se è necessaria in una società democratica». Una siffatta dichiarazione, che introduce un principio innovativo, non viene da giudici politicizzati, «toghe rosse» o esponenti estremisti dei sindacati. No, la Corte di Strasburgo è in Europa la suprema magistratura che introduce orientamenti validi per i tribunali dei singoli paesi membri della Comunità.

In questo caso, si occupava di un articolo di un giornalista di un'agenzia di stampa greca. Ma qualche tempo fa intervenne in direzione opposta, per riconoscere il diritto al risarcimento della famiglia Craxi, che aveva viste pubblicate arbitrariamente intercettazioni di telefonate dell'ex premier socialista, durante l'esilio ad Hammamet (la sentenza faceva riferimento anche a quelle confidenziali con la giornalista Alda D'Eusanio che contenevano espressioni personali ed affettuose).

Fermiamoci un attimo a riflettere su quali potrebbero essere le conseguenze della sentenza. Ed aggiungiamo, solo per completezza, che la Corte ha spiegato in dettaglio i termini delle sue conclusioni. Chiarendo: «Un'affermazione che, inserita in un articolo di giornale esprime la critica nei confronti delle posizioni politiche del destinatario, piuttosto che un insulto, non va considerata come diffamazione». Ed esplicitando che il compito dell'autorità giudiziaria di ogni singolo paese non è di limitarsi ad accertare se il contenuto di un articolo «sia in grado di recare pregiudizio alla personalità e alla reputazione del destinatario, (.) vieppiù quando il destinatario è un personaggio pubblico», ma piuttosto «di esaminare, alla luce del caso concreto, se l'interesse del pubblico e l'intento del giornalista giustifichino l'eventuale ricorso a provocazioni o esagerazioni».

Ora, che un politico, o comunque un uomo di potere cerchino di intimidire un giornalista con i mezzi di cui sono in possesso, o minacciando (e magari non dando corso alle minacce) di rivolgersi all'autorità giudiziaria, per difendersi da attacchi che giudicano calunniosi, malgrado tutto fa parte del gioco. E che un giornalista ne debba tener conto, senza ricorrere a vanti di eroismo o a lamenti di persecuzioni, altrettanto. Quando un giornalista rischia davvero, infatti, c'è pure il caso che ci rimetta la vita. E quando un politico o un uomo di potere perdono la reputazione a causa di una campagna orchestrata, che si rivelerà troppo tardi infondata, non si dà certo prova di civiltà.



Ma proprio perché la libertà d'informazione, come ci ricorda la Corte, è rilevante nel meccanismo della democrazia, è legittimo chiedersi, aspettandole anche, quali ripercussioni potrà avere una sentenza come questa in Italia. E soprattutto nell'Italia di oggi, in cui, per legge, quasi metà dell'informazione televisiva è sottoposta al controllo di una commissione di vigilanza parlamentare composta esclusivamente di politici, e l'altra quasi metà viene messa in onda da emittenti controllate dalla famiglia del presidente del consiglio. In cui le nuove norme sulle intercettazioni telefoniche, spesso eccessive, spesso usate a sproposito contro gli intercettati e i malcapitati che si trovino a parlare con loro al telefono, mirano più a bloccare la pubblicazione o la trasmissione delle stesse, che non a regolarne le modalità di effettuazione: come se appunto il problema fosse impedire di leggere, e non di fare, intercettazioni che violano la privacy dei cittadini.

O ancora in cui, lo vedremo tra pochi giorni, quando la programmazione tv riprenderà al ritmo normale, i talk-show e i programmi di approfondimento giornalistico sono sottoposti quotidianamente a una sorta di processo politico, che partendo dalla censura degli inevitabili singoli casi di esagerazioni e provocazioni (sì, proprio quelle che la Corte europea considera legittime), finiscono con l'investire il sistema dell'informazione nel suo complesso. E in cui perfino il cambio di direzione nel giornale vicino al principale partito d'opposizione ha dato luogo a polemiche e sospetti, tutti o in gran parte ingiustificati, di imposizioni politiche dall'alto.

Un paese, infine, in cui, non va dimenticato, il soprassalto, certo esagerato, di un frammento radicale di opinione pubblica, espresso anche in forma di satira, dal palco di una manifestazione politica autorizzata, è diventato a torto l'esempio della degenerazione politicizzata e degli obiettivi eversivi del giornalismo d'inchiesta, come se tutto o quasi l'universo dell'informazione si riconoscesse nelle cose dette e urlate dal palco di Piazza Navona, e come se i comici, gli attori e i giornalisti che parlavano e urlavano da quel palco non avessero pieno diritto di dirle e urlarle, valutandone la portata e assumendosene le responsabilità.

Proprio per questo non c'è da illudersi che la sentenza della Corte europea abbia presto qualche effetto sul panorama di questa tormentata realtà, politica e giornalistica. Magari qualcuno ne avrà, perché riguarda i giudici e il loro metro di valutazione, e la magistratura italiana, in questo momento, si sente minacciata - fino a parlare, a sproposito, di «fascismo» -, dalle riforme annunciate dal governo, e condivise da una parte dell'opposizione, per cercare di ridurne gli eccessi. Ma il punto vero è un altro: la sentenza, e l'Europa nel suo complesso, ci ricordano che «la libertà giornalistica» (e non solo quella dei giornalisti) hanno un ruolo fondamentale nel funzionamento di «una società democratica». La crescita, e purtroppo il degrado, di entrambe, procedono insieme.



Dagospia 01 Settembre 2008