RASSEGNATI STAMPA - MORETTI, E ADESSO SPOSTATI; VIVA L'ITALIA CHE RESISTE (A RON); VALZANIA DEVE CHIEDERE SCUSA A FURIO COLOMBO.
VIVA 'ITALIA CHE RESISTE (A RON)
Aldo Grasso per il Corriere della Sera
Giovanna Botteri, la valente e seriosa conduttrice del Tg3 ha riso; e questa, come si dice, è una notizia. Si è concessa all'inusitata contentezza non per sottolineare una buona nuova, una vittoria sociale o l'ennesimo premio a Gino Strada. No, era contenta di «trainare» un programmino musicale confidenzialmente appellato «Pino, Francesco, Fiorella, Ron» (Raitre, giovedì, ore 23.19). Questo omaggio non dichiarato al Quartetto Cetra era una sorta di diario buonista del tour estivo di quattro celebri artisti, decisi, una volta tanto, a intrecciare i loro repertori e i loro stili. Il pericolo non era lo scontro fra individualismi ma il moltiplicarsi per quattro delle ubbie personali (avete mai provato, in una sera di depressione, a sentire «Una città per cantare»? Vi è nota l'ironia di De Gregori? E perché alla pur brava Fiorella aggiungono sempre un vile apostrofo nel cognome?). Invece è andato tutto bene: viva l'Italia che non muore, l'Italia assassinata dai giornali e dal cemento. Ron: «La cosa meravigliosa è che siamo diventati amici». Fiorella: «C'è armonia, divertimento, non ci sono scherzi. E' stato un bagno d'umiltà». Francesco: «E' una bella colla» («colla» è un vocabolo che piace molto, sta sostituendo il più marziale «aggregazione»).
Sembrava, appunto, di sentire vecchie interviste del meraviglioso Quartetto Cetra. Per fare uno speciale di mezz'oretta ci si sono messi in quattro: Margherita Ferrandino, Guido Tombari, Paolo Aleotti e Daniela Colucci. Ma era un calcolo sentimentale, uno studiato omaggio musicale: batto quattro, quattro amici al bar, quattro marzo, quattro vestiti, quattro cani per strada e la strada è già piazza e la sera è già notte, se ci fosse la luna si potrebbe cantare. La luna c'era ed era quella dei quattro più quattro di Nora Orlandi. Viva l'Italia, l'Italia che resiste.
VALZANIA CHIEDA SCUSA
Giuliano Ferrara per Il Foglio
Come è possibile che Sergio Valzania, un dirigente della radiofonia non privo di esperienza, un funzionario Rai che ha tranquillamente e professionalmente convissuto con tutti i regimi succedutisi nel mondo dell'informazione, un uomo anche colto che ha scritto un bel libretto su Napoleone, si svegli d'improvviso una mattina e si vendichi delle intolleranti cattiverie scritte su di lui dall'Unità impedendo al suo direttore di partecipare a una piccante e innocente trasmissione di Pierluigi Diaco?
Come può non capire il soggetto di questa storia non ordinaria di denegato accesso alla pubblica informazione che a comportarsi così ci si infila semplicemente in un clima da operetta? Lo zelo e i suoi eccessi sono sempre stati per noi un completo mistero. Ci sono battaglie di principio e di forte pregnanza civile, come quella per castigare l'immondo filmato sull'11 settembre propinato a Venezia, e lì la cosiddetta destra si rivela intellettualmente debole, impreparata, distratta.
Ci sono poi occasioni che si presterebbero molto bene a esprimere civilmente disponibilità al dialogo, una punta di sana ironia e un senso sacro di ciò che è pubblico, e lì trionfano le ripicche, i risentimenti, con un corteggio di argomenti speciosi che regime, che non si vede proprio, c'è solo la caricatura di un regime, e di quella di tanto in tanto si vede il segno.
Sappiamo benissimo che gli avversari del governo lavorano legittimamente per far saltare i nervi a chiunque operi nel settore dell'informazione pubblica, mettendo sotto tiro impietosamente, e spesso con effetti di esilarante autolesionismo, giornalisti e direttori sgraditi al regime Rai e Usigrai.
Sappiamo che l'attacco personale e la degradazione dell'avversario a servo o a criminale o a nazista sono spesso una specializzazione professionale dell'Unità e del suo direttore, che comprensibilmente ma un po' comicamente se ne lamenta, sbrodolandosi addosso campagne di solidarietà posticce, quando ne è colpito personalmente e di rimbalzo. Ma questo è un brutto e stupido gioco al quale le persone serie, e tra queste il buon Valzania, devono rigorosamente rifiutarsi di partecipare. Vogliamo ascoltare Furio Colombo, lo vogliamo sottoposto come chiunque lo desideri e abbia titoli al microfono leggero e salace del dj & ds di 3131. Non vogliamo sequestri di parte di quel che è pubblico e rancorosi conformismi di maggioranza. Scusatevi e invitatelo di nuovo.
IL NUOVO SORPASSO DI RISI
Francesco Merlo per il Corriere della Sera
Quarant'anni dopo il Sorpasso, dobbiamo ringraziare il regista Dino Risi per un nuovo capolavoro, una battuta straordinaria, veloce come un Sorpasso, vera e cattiva come i Mostri, una frase abbagliante come un fulmine che ci libera da una ipocrita venerazione, da un oscuro biasimo finalmente trasformato in intelligenza critica: «Moretti, levati che devo vedere il film». Ecco, non sono poi tante le frasette, i libriccini, i film o le canzoni che bene hanno spiegato la nostra vita, che meglio hanno compreso la nostra generazione, quella per intenderci che sta tra Dino Risi e Nanni Moretti, tra la malinconia intelligente del Sorpasso e la tristezza supponente della Stanza del figlio. Sicuramente un lampo fu la battuta di Paolo Villaggio sulla Corazzata Potemkin «cagata pazzesca» perché ci liberò dallo «specifico filmico» e dunque dalla retorica dei cineclub. Più dolorosamente, l' Intervista storico filosofica del marxista Lucio Colletti ci fece evadere dai castelli fatati del marxismo. Allo stesso modo Vittorio Gassman ci mostrò i Brancaleone che eravamo.
E, d'un tratto, tutto quello che oscuramente ci opprimeva si illuminò appunto nel Sorpasso di Risi, che ci indicava di che pasta erano fatti l'entusiasmo, la fragilità e la presunzione.
Adesso, tra le intense stelle che hanno fugato le nostre ombre, tra le parole giuste che hanno aggredito le abitudini intellettuali e i pregiudizi che avevamo costruito più lucidamente e più faticosamente, proprio perché anticonformisti e rivoluzionari, insomma tra quei piccoli fatti che hanno svelato la grande storia c'è quest'altra invenzione di Risi, la frase che il grande regista ha pronunziato a Venezia: «Moretti, levati che devo vedere il film».
Con i film di Nanni Moretti abbiamo tutti un legame di complicità, legame intellettuale, fatto di ideologia e di politica. E' un legame ambientale, di un tempo storico arredato con gli stessi quadri e gli stessi libri, animato dalle stesse sollecitazioni e dallo stesso gusto della vita. E tuttavia guardando un film di Moretti proviamo, sia pure inespresso, lo stesso fastidio di Risi: «Moretti è uno che si piace talmente tanto da occupare sempre lo schermo con un suo primo piano. Viene da dirgli: spostati, fatti in là che devo vedere il film».
Basta dunque una frase come questa per liberare un'intera generazione da un imbarazzo, un sospetto, un peso misterioso. Dino Risi ha l'autorevolezza anagrafica, intellettuale e professionale per dire quello che la nostra complicità ci impedisce di esprimere. Risi scompone questa finta complicità basata sullo humus e non sulla ragione: una complicità calda è stata scomposta da un battuta fredda.
Ironico, anticonformista non programmatico né per partito e neppure per progetto, anarchico metodologico, Dino Risi è stato quest'anno il grande vecchio del festival di Venezia, protagonista, come al solito, di una girandola di battute intelligenti e sapide: e sulla Loren mamma filmica; e sui cretini divertenti che sono migliori dei geni noiosissimi; e su Bossi e Berlusconi che a Hollywood sarebbero già soggetto cinematografico. L'ottantenne Risi si è innervosito solo dinanzi a un intervistatore, un suo quasi coetaneo giovanilista, sbracatamente alternativo e tuttavia ruffianesco. Di nuovo Risi gli ha detto quel che tutti stavano pensando e reprimendo: «Questa è una domanda del cazzo».
Ma il nuovo capolavoro di Risi è quella frase su Moretti che andava forse inserita nella motivazione del premio, il Leone d'oro alla carriera, preso sì, ma con ironia: «Detesto i festival. Una volta per non andarci finsi di essermi rotto una gamba».
Moretti ha un bel fare spallucce a tutto ciò che non si incontra con il suo umore, proprio come faceva quel D'Alema che non gli piace e al cui carattere sia lui che i suoi film somigliano davvero tanto. Moretti inseguiva D'Alema perché gli dicesse qualcosa di sinistra. Gliel'ha detta Risi. Se la porti in piazza il 14 settembre.
Dagospia.com 8 Settembre 2002
Aldo Grasso per il Corriere della Sera
Giovanna Botteri, la valente e seriosa conduttrice del Tg3 ha riso; e questa, come si dice, è una notizia. Si è concessa all'inusitata contentezza non per sottolineare una buona nuova, una vittoria sociale o l'ennesimo premio a Gino Strada. No, era contenta di «trainare» un programmino musicale confidenzialmente appellato «Pino, Francesco, Fiorella, Ron» (Raitre, giovedì, ore 23.19). Questo omaggio non dichiarato al Quartetto Cetra era una sorta di diario buonista del tour estivo di quattro celebri artisti, decisi, una volta tanto, a intrecciare i loro repertori e i loro stili. Il pericolo non era lo scontro fra individualismi ma il moltiplicarsi per quattro delle ubbie personali (avete mai provato, in una sera di depressione, a sentire «Una città per cantare»? Vi è nota l'ironia di De Gregori? E perché alla pur brava Fiorella aggiungono sempre un vile apostrofo nel cognome?). Invece è andato tutto bene: viva l'Italia che non muore, l'Italia assassinata dai giornali e dal cemento. Ron: «La cosa meravigliosa è che siamo diventati amici». Fiorella: «C'è armonia, divertimento, non ci sono scherzi. E' stato un bagno d'umiltà». Francesco: «E' una bella colla» («colla» è un vocabolo che piace molto, sta sostituendo il più marziale «aggregazione»).
Sembrava, appunto, di sentire vecchie interviste del meraviglioso Quartetto Cetra. Per fare uno speciale di mezz'oretta ci si sono messi in quattro: Margherita Ferrandino, Guido Tombari, Paolo Aleotti e Daniela Colucci. Ma era un calcolo sentimentale, uno studiato omaggio musicale: batto quattro, quattro amici al bar, quattro marzo, quattro vestiti, quattro cani per strada e la strada è già piazza e la sera è già notte, se ci fosse la luna si potrebbe cantare. La luna c'era ed era quella dei quattro più quattro di Nora Orlandi. Viva l'Italia, l'Italia che resiste.
VALZANIA CHIEDA SCUSA
Giuliano Ferrara per Il Foglio
Come è possibile che Sergio Valzania, un dirigente della radiofonia non privo di esperienza, un funzionario Rai che ha tranquillamente e professionalmente convissuto con tutti i regimi succedutisi nel mondo dell'informazione, un uomo anche colto che ha scritto un bel libretto su Napoleone, si svegli d'improvviso una mattina e si vendichi delle intolleranti cattiverie scritte su di lui dall'Unità impedendo al suo direttore di partecipare a una piccante e innocente trasmissione di Pierluigi Diaco?
Come può non capire il soggetto di questa storia non ordinaria di denegato accesso alla pubblica informazione che a comportarsi così ci si infila semplicemente in un clima da operetta? Lo zelo e i suoi eccessi sono sempre stati per noi un completo mistero. Ci sono battaglie di principio e di forte pregnanza civile, come quella per castigare l'immondo filmato sull'11 settembre propinato a Venezia, e lì la cosiddetta destra si rivela intellettualmente debole, impreparata, distratta.
Ci sono poi occasioni che si presterebbero molto bene a esprimere civilmente disponibilità al dialogo, una punta di sana ironia e un senso sacro di ciò che è pubblico, e lì trionfano le ripicche, i risentimenti, con un corteggio di argomenti speciosi che regime, che non si vede proprio, c'è solo la caricatura di un regime, e di quella di tanto in tanto si vede il segno.
Sappiamo benissimo che gli avversari del governo lavorano legittimamente per far saltare i nervi a chiunque operi nel settore dell'informazione pubblica, mettendo sotto tiro impietosamente, e spesso con effetti di esilarante autolesionismo, giornalisti e direttori sgraditi al regime Rai e Usigrai.
Sappiamo che l'attacco personale e la degradazione dell'avversario a servo o a criminale o a nazista sono spesso una specializzazione professionale dell'Unità e del suo direttore, che comprensibilmente ma un po' comicamente se ne lamenta, sbrodolandosi addosso campagne di solidarietà posticce, quando ne è colpito personalmente e di rimbalzo. Ma questo è un brutto e stupido gioco al quale le persone serie, e tra queste il buon Valzania, devono rigorosamente rifiutarsi di partecipare. Vogliamo ascoltare Furio Colombo, lo vogliamo sottoposto come chiunque lo desideri e abbia titoli al microfono leggero e salace del dj & ds di 3131. Non vogliamo sequestri di parte di quel che è pubblico e rancorosi conformismi di maggioranza. Scusatevi e invitatelo di nuovo.
IL NUOVO SORPASSO DI RISI
Francesco Merlo per il Corriere della Sera
Quarant'anni dopo il Sorpasso, dobbiamo ringraziare il regista Dino Risi per un nuovo capolavoro, una battuta straordinaria, veloce come un Sorpasso, vera e cattiva come i Mostri, una frase abbagliante come un fulmine che ci libera da una ipocrita venerazione, da un oscuro biasimo finalmente trasformato in intelligenza critica: «Moretti, levati che devo vedere il film». Ecco, non sono poi tante le frasette, i libriccini, i film o le canzoni che bene hanno spiegato la nostra vita, che meglio hanno compreso la nostra generazione, quella per intenderci che sta tra Dino Risi e Nanni Moretti, tra la malinconia intelligente del Sorpasso e la tristezza supponente della Stanza del figlio. Sicuramente un lampo fu la battuta di Paolo Villaggio sulla Corazzata Potemkin «cagata pazzesca» perché ci liberò dallo «specifico filmico» e dunque dalla retorica dei cineclub. Più dolorosamente, l' Intervista storico filosofica del marxista Lucio Colletti ci fece evadere dai castelli fatati del marxismo. Allo stesso modo Vittorio Gassman ci mostrò i Brancaleone che eravamo.
E, d'un tratto, tutto quello che oscuramente ci opprimeva si illuminò appunto nel Sorpasso di Risi, che ci indicava di che pasta erano fatti l'entusiasmo, la fragilità e la presunzione.
Adesso, tra le intense stelle che hanno fugato le nostre ombre, tra le parole giuste che hanno aggredito le abitudini intellettuali e i pregiudizi che avevamo costruito più lucidamente e più faticosamente, proprio perché anticonformisti e rivoluzionari, insomma tra quei piccoli fatti che hanno svelato la grande storia c'è quest'altra invenzione di Risi, la frase che il grande regista ha pronunziato a Venezia: «Moretti, levati che devo vedere il film».
Con i film di Nanni Moretti abbiamo tutti un legame di complicità, legame intellettuale, fatto di ideologia e di politica. E' un legame ambientale, di un tempo storico arredato con gli stessi quadri e gli stessi libri, animato dalle stesse sollecitazioni e dallo stesso gusto della vita. E tuttavia guardando un film di Moretti proviamo, sia pure inespresso, lo stesso fastidio di Risi: «Moretti è uno che si piace talmente tanto da occupare sempre lo schermo con un suo primo piano. Viene da dirgli: spostati, fatti in là che devo vedere il film».
Basta dunque una frase come questa per liberare un'intera generazione da un imbarazzo, un sospetto, un peso misterioso. Dino Risi ha l'autorevolezza anagrafica, intellettuale e professionale per dire quello che la nostra complicità ci impedisce di esprimere. Risi scompone questa finta complicità basata sullo humus e non sulla ragione: una complicità calda è stata scomposta da un battuta fredda.
Ironico, anticonformista non programmatico né per partito e neppure per progetto, anarchico metodologico, Dino Risi è stato quest'anno il grande vecchio del festival di Venezia, protagonista, come al solito, di una girandola di battute intelligenti e sapide: e sulla Loren mamma filmica; e sui cretini divertenti che sono migliori dei geni noiosissimi; e su Bossi e Berlusconi che a Hollywood sarebbero già soggetto cinematografico. L'ottantenne Risi si è innervosito solo dinanzi a un intervistatore, un suo quasi coetaneo giovanilista, sbracatamente alternativo e tuttavia ruffianesco. Di nuovo Risi gli ha detto quel che tutti stavano pensando e reprimendo: «Questa è una domanda del cazzo».
Ma il nuovo capolavoro di Risi è quella frase su Moretti che andava forse inserita nella motivazione del premio, il Leone d'oro alla carriera, preso sì, ma con ironia: «Detesto i festival. Una volta per non andarci finsi di essermi rotto una gamba».
Moretti ha un bel fare spallucce a tutto ciò che non si incontra con il suo umore, proprio come faceva quel D'Alema che non gli piace e al cui carattere sia lui che i suoi film somigliano davvero tanto. Moretti inseguiva D'Alema perché gli dicesse qualcosa di sinistra. Gliel'ha detta Risi. Se la porti in piazza il 14 settembre.
Dagospia.com 8 Settembre 2002