berengo gardin palazzo delle esposizioni

CLIC! BERENGO GARDIN AL PALA EXPO - IL NOSTRO CARTIER-BRESSON CHE, ALLA ''BELLA'' FOTOGRAFIA, HA SEMPRE PREFERITO QUELLA "BUONA", CIOE' UNA IMMAGINE CON CONTENUTO, AL DI LA' DI ESTETISMI E MANIERISMI - “L’UNICO POSTO CHE NON HO MAI DOCUMENTATO È STATO L’AFRICA. NON VOLEVO CONTRIBUIRE ALLA DIFFUSIONE DI IMMAGINI DI BAMBINI NERI CHE MUOIONO”

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Lea Mattarella per “la Repubblica”

 

All’inizio, con la sua macchina fotografica, Gianni Berengo Gardin voleva fare il pittore. Poi ha pensato che questa poteva servire a fare di lui un giornalista. Per documentare la realtà. Artista c’è diventato lo stesso, perché raccontando il mondo è stato capace di crearne uno proprio: in bianco e nero, sostenuto da passione e curiosità. Sono queste, secondo lui, le due doti necessarie a far bene il suo lavoro. Oltre a quella di «credere nell’importanza della fotografia, nel suo ruolo».

 

Berengo Gardin ha avuto fiducia nel mezzo fotografico per 60 anni e più di 250 libri. Ed è stato ricambiato. Il suo universo vario e rigoroso è esposto oggi a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, in una mostra impeccabile, curata da Alessandra Mammì e Alessandra Mauro, intitolata Vera fotografia, costruita sulla misura di questo maestro che non è solo una questione di dimensioni (le sue sono 30x40), ma è il nitore della sua visione (fino al 28 agosto, catalogo Contrasto).

 

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Lui, quasi 86 anni portati con l’allegria di chi ha passato la vita a fare proprio ciò che avrebbe voluto, è qui con la Leica al collo. «Sto fotografando il posto, è bellissimo, guardi queste colonnone dell’atrio». Ma com’è nata la grande avventura di fotografo che si racconta tra queste sale?

 

«Io scrivevo per un giornale che si occupava d’aviazione e fotografavo gli aerei. Un giorno mi sono iscritto al Circolo fotografico La Gondola diretto da Paolo Monti a Venezia. Inquadravo tramonti, vecchietti… Poi uno zio che viveva negli Stati Uniti mi ha mostrato Life, i reportage dei fotografi americani e lì ho capito che mi interessava il fotogiornalismo, quello di Eugene Smith e Dorothea Lange per capirci ».

 

Così è nato il “fotografo dell’uomo”, come lo ha definito Sebastião Salgado, che ha attraversato il mondo. «L’unico posto che non ho mai documentato è stato l’Africa, ed è una scelta. Non volevo contribuire alla diffusione di immagini di bambini neri che muoiono. Che diritto abbiamo noi fotografi di sfruttare la loro fame?».

 

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In mostra però si snoda soprattutto la sua irripetibile storia d’Italia: dalle immagini di Venezia – città dove si è formato – con gli spazzini, l’acqua alta, il lampionaio, fino ai bambini di Napoli, le manifestazioni di protesta, le contadine, i pastori, i pugili, i preti, le spose, i balli di periferia, le case, le facce. «Se tutto questo ha un valore lo si vedrà tra molti anni, quando qualcuno potrà dire: guarda come vivevano in quel periodo».

 

E se davvero questo è il metro di giudizio, si può già sostenere che Berengo Gardin ha centrato l’obiettivo. In questa mostra, oltre a tutto il resto, c’è la nostalgia per un mondo quasi scomparso che lui ti fa conoscere, scoprire.

 

«Io mi sono limitato a registrare quello che vedevo – prosegue sorridendo – non sono un creativo. A essere creativi sono i soggetti delle mie immagini: se ti metti il dito nel naso, sei tu ad aver fatto l’atto mica io! Il mio merito è stato semplicemente quello di aver colto quel momento». E se a qualcuno sembra poco, guardi quello che succede tra i vetri e gli specchi di un vaporetto veneziano in una foto che sembra la scena di un giallo e invece è la vita.

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Oppure nei riflessi del vagone di un treno, o in un monastero in cui c’è una figura che passa proprio accanto a un affresco che sembra la sua copia ferma nei secoli. E poi, eccoci sotto i portici dove due innamorati si baciano e gli archi sembrano quasi moltiplicare il loro gesto, renderlo musicale al punto che ti sembra di sentirne il suono.

 

E le bambine che tornano da scuola passando sotto un ponte, dove in quel momento un treno si è fermato, un uomo guarda giù e un’ombra si muove ma Berengo è lì per fermarla per sempre. Sembra quasi che il fotografo non abbia cercato le immagini, ma che siano state loro a farsi trovare, tanto tutto appare naturale. «A me servono i libri, il cinema, la musica. Quando sono andato in America avevo letto Dos Passos, Faulkner, Hemingway. Sapevo cosa cercare. E per Parigi il mio mito è Simenon, è già tutto lì».

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Berengo Gardin non smette di denunciare, di difendere gli umiliati e offesi. Ha cercato di proteggere la fragilità di Venezia dalle grandi navi da crociera, mostrandone il soffocante impatto visivo. Ha fotografato la vitalità, le feste, la musica dei rom.

 

«Tutti dicono che rubano, ma è una piccola minoranza, io ho vissuto con loro a Palermo, a Bolzano, a Firenze. Hanno una cultura diversa dalla nostra, ma mica è detto che una sia più giusta dell’altra. Ci dimentichiamo che hanno fatto la resistenza, che i nazisti ne hanno sterminati 500mila nelle camere a gas».

 

Ha condiviso anche la vita degli operai mentre fotografava quella delle fabbriche? «Certo, è con quelli dell’Alfa Romeo che sono diventato comunista. Non ho mai letto i testi sacri del partito, ma ho visto da vicino la condizione d’ingiustizia in cui vivono gli operai. Oggi non è quella del 1954, ma continuano a essere sfruttati ».

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Nonostante i temi difficili, il desiderio di riscattare gli ultimi, nelle immagini di questo grande maestro non c’è mai rabbia. Goffredo Fofi dice di essere grato a Berengo Gardin perché la sua fotografia rassicura e dà forza. Come mai da questo bianco e nero è bandito l’eccesso? «Io sono contro la violenza per carattere. Anche contro quella delle immagini.

 

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Per esempio nei manicomi non ho voluto fotografare la malattia. Sarebbe stato facile inquadrare lo psicotico che urlava, ma volevo mostrare sguardi, camicie di forza, divise, teste rasate, i tentativi di eliminare l’identità di chi stava male. Io dovevo restituirgliela». E lo ha fatto, perché noi oggi in quelle foto non vediamo la pazzia, immaginiamo esistenze.

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