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CIAO ALBERTO, OGGI IL TITOLO SEI TU – MASSIMO GIANNINI RICORDA STATERA: MAI LECCHINO, HA SEGNATO UNO STILE NEL GIORNALISMO ECONOMICO E POLITICO, DALE PARTECIPAZIONI STATALI A TANGENTOPOLI – FECE CONFESSARE A FINI CHE “MUSSOLINI E’ STATO IL PIU’ GRANDE STATISTA DEL SECOLO” – COME HAI FATTO? “BASTA CHIEDERE”…

ALBERTO STATERAALBERTO STATERA

Massimo Giannini per la Repubblica

 

«Va bene, ho capito, ma qual è ‘o titolo?»... Ogni volta che ripenso a lui, al magnifico pezzo di strada che abbiamo fatto insieme in questo giornale, mi torna in mente quella battuta, che faceva alla fine di ogni ragionamento su un pezzo da fare, su un retroscena da scrivere, sulle malefatte di un potente da raccontare. Alberto Statera, morto ieri a 69 anni, era uno degli ultimi, grandi giornalisti di razza, allevati da Eugenio Scalfari in quella straordinaria palestra di cultura laica, di passione politica, di senso civico che sono stati “l’Espresso” prima, “Repubblica” poi.

 

Ce lo ricordiamo tutti, almeno noi che ormai siamo diventati i più “vecchi”, quando entrò al giornale nel 1990. Era già quasi un mito. Era un mito perché era cresciuto proprio a “l’Espresso”, dov’era entrato nel 1971 ed era diventato subito un gigante, con quei primi ritratti al vetriolo sui potenti del Belpaese. La testatina di quella serie diceva già tutto: «I padrini del vapore». Con quelle interviste ritmate, asfissianti, che si chiamavano non per caso “terzo grado”, e mettevano alle corde chiunque finisse sotto la sua penna, dagli alti papaveri della finanza vaticana come Massimo Spada (ai quali faceva confessare le porcherie di Sindona) agli squali “farabutti” della chimica italiana come Raffaele Ursini (che con lui vuotavano il sacco sulle magagne di Cefis).

Il Termitaio - Alberto Statera, ed RizzoliIl Termitaio - Alberto Statera, ed Rizzoli

 

E poi era un mito perché dopo l’Espresso, e dopo la direzione della Nuova Sardegna (dove in tre anni riuscì a triplicare le copie) sbarcò alla Mondadori, da direttore di Epoca, e la mollò nel ‘90, senza pensarci un minuto, quando a Segrate arrivò Berlusconi. Alberto fu uno dei pochissimi giornalisti che seppe sbattere la porta chiedendo la “clausola di coscienza”. Un’altra medaglia d’oro al valore, preziosa per noi che lo avemmo come caporedattore dell’economia.

 

Lo vedo ancora attraversare la redazione, al terzo piano di piazza Indipendenza. Elegante, com’era sempre dentro e fuori, con una mantella di loden blu notte. «Ragazzi, mi chiamo Alberto Statera, e sono un uomo libero, da tutto e da tutti. Voglio che lo siate anche voi. Adesso poche chiacchiere, mettiamoci al lavoro. Non guardiamo in faccia a nessuno e ricordiamoci che siamo Repubblica ».

 

SCALFARISCALFARI

Lo guardavamo ammirati, e anche un po’ intimiditi. Aveva carisma, ma era anche un uomo di grande simpatia. E aveva la barba, già brizzolata, che a noi ne ricordava un’altra, ancora più folta e mitologica. La barba che ci teneva tutti uniti e (allora come oggi) dava senso alle cose che facevamo: quella di Scalfari, il nostro Barbapapà.

 

Ora che Alberto se n’è andato, possiamo dire che proprio questa è la cosa più forte che ci lascia. Il senso di un’appartenenza, quasi di una missione, che in questo gruppo editoriale e in questo giornale lui non ha mai tradito. Statera aveva tre doti formidabili, per un giornalista. Non aveva padroni. Aveva una curiosità inesauribile. Scriveva da dio.

 

prodi e nobili (Iri) prodi e nobili (Iri)

Fu tra i primi a capire che, soprattutto negli anni ‘80 e fino a Tangentopoli, il verminaio da scoperchiare era quello delle Partecipazioni Statali. L’Iri, l’Eni, l’Efim. Quel sottobosco nel quale la politica incrociava l’economia, e germinava una folta generazione di “boiardi” (da Nobili a Pascale) e un florilegio di mazzette che Mani Pulite avrebbe disvelato nel ‘92. Lui non si fermava di fronte a nulla. Aveva un archivio straordinario, e un’agenda sconfinata. «Chi devo chiamare?», chiedeva a noi, quando c’era qualcosa che ci era sfuggito, nelle zone d’ombra dei Poteri che allora erano Forti davvero. Qualunque nome tu gli indicassi, lui chiamava, e quelli gli rispondevano sempre. Perché lo rispettavano, ma soprattutto lo temevano. Com’è giusto che sia, per un giornalista che conosce tutti ma non frequenta nessuno, che fa il cane da guardia e non il cane da salotto.

Berlusconi con una delle prime immagini con dietro il simbolo di Forza ItaliaBerlusconi con una delle prime immagini con dietro il simbolo di Forza Italia

 

Incassava interviste memorabili e reportage insuperabili. Nessuno ha raccontato come lui l’ascesa e la caduta di quel mondo. Nessuno lo ha fatto con la stessa, elegante ferocia. Una “cattiveria di prima classe”. Acuta e puntuta. Mai banale e mai volgare. E soprattutto, in perfetto stile Repubblica, sempre ancorata ai fatti e ai numeri. Mai autocompiaciuta e fine a se stessa. Perché quello che gli interessava era sempre la stessa cosa: qual è ‘o titolo? Cioè, qual è la notizia?

 

Non ha mai smesso di darne, di notizie. Neanche quando se ne andò alla Stampa di Ezio Mauro, dal 1992 al 1996, a narrare gli splendori e le miserie di un altro potere nascente, quello del Cavaliere di Arcore. Per noi di Repubblica fu una perdita ferale.

 

E lui, dal quotidiano di Bobbio e di Galante Garrone, ci fece piangere lacrime vere. Come quando intercettò per primo un tronfio Gianfranco Fini, ancora fascista e appena entrato nella stanza dei bottoni, che in un’intervista passata alla storia gli confidò: «Mussolini è stato il più grande statista del secolo». Come hai fatto a fargli dire una nefandezza del genere? Gli chiesi all’epoca. «Non è stato difficile», mi rispose, «basta chiederle, le cose».

Gianfranco FiniGianfranco Fini

 

Semplice, ma incredibilmente vero. Allora come oggi. La formula che Statera impersonava nella vita e nel lavoro era sempre quella, che riassume e riflette l’identità di questo giornale, radicale in politica e liberale in economia. Una certa idea dell’Italia, repubblicana, progressista, europea.

 

E una certa idea del giornalismo, che non si beve nessuna verità ufficiale, che scava e fa domande, perché anche se non la vediamo c’è sempre un’altra risposta. Lui si divertiva a cercarla. Ma sapeva anche che quell’idea dell’Italia non l’avrebbe mai vista realizzata. E lo confessava, quando negli ultimi tempi lo incontravi a pranzo dal suo amico “Alvaro”, affacciato sul Circo Massimo.

 

«Ho perso le speranze, siamo un Paese incorreggibile». Questo spiega forse quel suo fondo malinconico, che sia pure nella sottile ironia non lo lasciava mai. «E poi», aggiungeva, quando gli chiedevi l’ennesimo commento sul politicante di turno, «che ti devo dire? Un conto era l’epopea di gente come gli Agnelli, i Pirelli, i Gardini, oppure i Carli e gli Andreatta. Ma oggi? Ti guardi intorno, e ti cascano le braccia».

 

tangentopolitangentopoli

Ma non ha mai smesso di cercare. Con il gusto genuino della ricerca, che era stilistico ma anche contenutistico. «Vedi», diceva, «quando fai un pezzo devi sempre partire dalla minuzia, dal dettaglio: perché in ogni vicenda c’è sempre un particolare che illumina e spiega il senso generale. Se lo trovi, è fatta ». Ha continuato a cercare quando è tornato nel gruppo, come direttore del giornali veneti. Quando si è spostato a Trieste, a dirigere il Piccolo. E poi negli ultimi anni. Con i suoi editoriali disincantati su Repubblica. Con quella sua rubrica al curaro, “Oltre il giardino”, su Affari & Finanza. 

STATERASTATERA

 

Con lo stesso sguardo impietoso, e mai domo, sulle tragicomiche avventure di capitalisti alle vongole e notabili sempre a cavallo, tra i miasmi dei palazzi romani e le macerie dei salotti buoni. Sulle vergogne di tutte le Repubbliche, la Prima, la Seconda e forse anche la Terza che verrà. Nessuno come lui le ha sapute indagare e descrivere, senza mai farsene contaminare. Per questo, oggi, per lui, ‘o titolo è uno solo: grazie Alberto, non smetteremo di cercare.

 

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