FIAT PRENDE UN ALTRO 3,3% DI CHRYSLER, A CARISSIMO PREZZO (254 MLN) - SONO INUTILI LE POLEMICUCCE ITALIANE, MARCHIONNE È GIÀ IN AMERICA

1. FIAT PRENOTA UN ALTRO 3,3% DI CHRYSLER
Andrea Malan per il "Sole 24 Ore"

Fiat esercita la terza tranche dell'opzione sulla quota Chrysler del fondo Veba e getta le basi per salire al 68,5% dell'azienda americana, in attesa di definire la trattativa sul prezzo con il fondo Usa.

La mossa sulla scacchiera americana era attesa ed è stata ufficializzata ieri mattina: «Fiat ha comunicato al Veba - scrive il Lingotto - la volontà di esercitare la sua opzione di acquistare una terza tranche della partecipazione detenuta da Veba in Chrysler Group, tranche pari a circa il 3,3% del capitale di Chrysler». Veba è un fondo fiduciario, gestito dal sindacato Uaw, che garantisce le prestazioni sanitarie ai pensionati Chrysler. Nel suo portafoglio c'è attualmente una quota del 41,5% di Chrysler, ricevuta nel 2009 in occasione della bancarotta pilotata dell'azienda. Sul 40% di tale quota (ovvero il 16,6% di Chrysler) Fiat dispone di un'opzione esercitabile in tranche semestrali.

IL COMPUTO DEL PREZZO
«Fiat - spiega la nota di Torino - pagherà un prezzo di esercizio determinato secondo gli accordi tra le parti sulla base di un multiplo di mercato (non eccedente il multiplo di Fiat) applicato all'Ebitda di Chrysler degli ultimi quattro trimestri pubblicati, meno il debito industriale netto.

Secondo il calcolo di Fiat, l'importo netto da pagare per l'acquisto di questa terza tranche della partecipazione di Veba in Chrysler è pari a 254,7 milioni di dollari Usa». La formula, in sostanza, assegna a Chrysler un valore tanto maggiore quanto migliori sono i suoi bilanci: per questo l'offerta Fiat è nettamente superiore ai circa 140 milioni offerti per la prima tranche e anche ai 198 della seconda.

L'EFFETTO RITARDATO
Le prime due tranche dell'opzione call erano state esercitate da Fiat nel luglio 2012 e nel gennaio di quest'anno, ma non hanno visto un effettivo trasferimento delle azioni. Proprio sulla formula di calcolo del prezzo, infatti, le due parti non si sono accordate: per la prima tranche, per esempio il Veba chiede 342 milioni di dollari, equivalente a una valutazione dell'azienda di oltre 10 miliardi (contro i meno di 5 proposti da Fiat).

«Se accettano il nostro prezzo, possiamo chiudere in settimana», ha scherzato ieri Marchionne, intervenendo a margine dell'assemblea dell'Unione industriale di Torino. Ma è sempre più probabile che per sbloccare la situazione si debba attendere il verdetto della Chanchery Court del Delaware, cui Fiat si era rivolta fin dal settembre 2012. La decisione della Corte potrebbe arrivare entro fine luglio, ma ci sono già stati vari slittamenti. Fiat ha già predisposto negli Usa la liquidità necessaria all'operazione.

LA STRADA PER L'IPO
Chrysler ha intanto avviato su richiesta del Veba la procedura per permettere la quotazione del titolo a Wall Street, dove il fondo intende vendere un altro 16,6% del capitale; ma l'esito più probabile resta la cessione in blocco a Fiat - operazione che permetterebbe al Lingotto di raggiungere il 100% e di avviare la fusione. Due passi importanti per due motivi. Il primo è che già ora Chrysler produce il grosso degli utili del gruppo: i conti del secondo trimestre 2013, attesi per fine luglio, dovrebbero confermare la ripartizione dei trimestri precedenti (l'azienda Usa è arrivata a pesare per il 90% del risultato consolidato).

Il secondo è che la fusione permetterà un utilizzo più flessibile della liquidità dell'azienda americana. La disponibilità dei fondi Chrysler potrebbe forse permettere a Marchionne di allentare la rigorosa dieta cui, anche causa crisi, sta sottoponendo da parecchi anni gli investimenti Fiat.

Oggi il manager annuncerà da Val di Sangro quelli destinati ai furgoni costruiti dalla Sevel, joint venture con il gruppo Peugeot. Restano invece congelati quelli per Mirafiori; per la possibile "obsolescenza" della fabbrica torinese ha espresso ieri preoccupazione il ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato, che pure ha definito la Fiat «un patrimonio del Paese».


2. SONO INUTILI LE POLEMICUCCE ITALIANE, MARCHIONNE È GIÀ PARTITO
Riccardo Ruggeri per "Il Foglio"

In questi anni molto ho scritto di Fiat, persino un libro ("Parola di Marchionne"), mai da analista, sempre da investitore (obbligazionario), di quelli che, con le banche, hanno dato a Marchionne 17 miliardi, seppur a fronte di 28 di debiti. E lui ha corrisposto interessi alti, rimborsandoli alla scadenza, non li ha spesi per prodotti, tecnologie, acquisizioni, ma li ha tenuti in cassa come assicurazione sulla vita, sua e nostra. In questi anni, per noi, Marchionne è stato, e tuttora è, un mito e lo sarà fino alla fusione con Chrysler, poi comincerà un altro film, altri attori, altre comparse.

Finora la linea d'ombra di Barack Obama ha protetto le obbligazioni Fiat, esse hanno goduto del "quid presidenziale", mai per noi investitori c'è stato un rischio, l'operazione Chrysler doveva riuscire, e così è stato. Quando Veba uscirà, tutto cambierà, i sindacati americani torneranno a fare il loro mestiere (non li riconosceremo più rispetto alla moderazione di quand'erano azionisti), gli attuali modelli Chrysler, frutto degli investimenti Daimler, dovranno essere rinnovati e ci vorranno molti quattrini, permarrà il coma (vigile) di Fiat Auto. In altre parole, saranno le implacabili leggi del mercato a valutare le prospettive di Chrysler-Fiat.

Il rapporto di Marchionne con noi investitori è sempre stato limpido, professionale. Chi era del mestiere capì subito il non detto: per me Fiat Auto concettualmente non era più un'azienda ma un "business case", utile per il rilancio della Chrysler, e come tale sarebbe stata gestita. Marchionne fu sempre sincero con noi investitori, ci ha persino anticipato che nel 2015 uscirà di scena. Curioso invece l'establishment politico-industriale-culturale italiano. Anziché cercare di capire cosa significasse per il paese la strategia vera (quella sottesa) di Fiat Auto, si concentrò su temi sì importanti, come le relazioni industriali e la produttività, ma nella fattispecie marginali.

E sull'uomo Marchionne, descrivendolo, a seconda dei casi, o come l'Uomo Nero (Boogeyman) della classe operaia o il Mandrake in golfino che avrebbe fatto tornare Fiat Auto ai fasti vallettiani. Un esempio. Da noi a corrente alternata si apre il dibattito sulla produttività, coinvolgendo a cascata tutti. Sia chiaro, la produttività è uno dei nodi irrisolti del paese, dicono i miei amici americani "voi avete sostituito al classico hiring and firing (assumere-licenziare), il curioso hiring and retiring (assumere-pensionare)".

Per Fiat Auto, nel momento storico che sta attraversando, ciò però ha scarsa rilevanza pratica. Alcuni dati di massima. Il costo del lavoro operaio (diretti, indiretti, manutentori, ecc.) in Fiat rappresenta il 7 per cento del costo. L'intero processo di fabbrica, dalla lastro-ferratura al montaggio finale, per una Panda vale 11 ore, assumiamo un costo/operaio di 22 euro/ora, totale 242 euro/auto.

In Polonia costerebbe 88 euro (8 euro/ora), in Germania 330 (30 euro/ora). Come si vede, il costo del lavoro è poco significativo. Costruire 200.000 Panda in Italia, di puro costo-lavoro, spendi 48 milioni di euro, in Polonia 18 (in crescita), la differenza di 30 milioni è irrilevante, trascurando gli altri ben noti fattori, qualità percepita compresa. E' di questi giorni la notizia che Nissan e Hyundai, avendo i modelli giusti, hanno deciso, in piena crisi, di "delocalizzare" in Europa.

Delocalizzare in Europa, capite? La vittoria postuma della Thatcher - Regno Unito come luogo di delocalizzazione dei giapponesi - si è compiuta. Il caso più eclatante di comunicazione sul nulla fu "Fabbrica Italia": per quasi due anni ci fu un feroce dibattito fra gli attori di cui sopra. I 20 miliardi di investimenti sbandierati dai media all'inizio si ridussero a 0,7, per rifare la linea Panda. 20 miliardi che Fiat non aveva, così come i modelli nuovi, nel frattempo il mercato si era contratto: in queste condizioni il livello di produttività era irrilevante. Cgil questo non lo capì.

Dopo 18 mesi intervenne Marchionne per dire che aveva sbagliato a coniare tale slogan: paginate di giornali, intelligenze di esperti e di accademici buttate alle ortiche. Ora sono di nuovo tutti lì a sfruculiare su argomenti irrilevanti o a interpretare sentenze, solo nello specifico, di scarsa rilevanza. In realtà il problema Fiat-Italia noi investitori l'abbiamo chiaro da tempo: "Fiat Auto ha stabilimenti e personale in esubero in termini strutturali, quanto costerà sfilarsi?".

Questo interessa a un investitore, punto. Noi sappiamo che da ora in avanti questi esuberi non saranno più a carico degli imprenditori-lavoratori (Cig) ma della fiscalità generale (cassa in deroga), è necessario definire, subito, quanti potranno rientrare al lavoro e quanti invece non saranno strutturalmente più necessari (quindi niente cassa in deroga).

Finora la Cig rappresentava un rapporto azienda-sindacati, quindi "privato", di qui in avanti sarà "pubblico", i quattrini sono dei cittadini, non possono essere erogati se non in presenza di criteri e impegni certi, temporizzati e verificabili, "chiacchiere e furbate" non sono più ammesse, deleghe in bianco neppure, se del caso la magistratura potrebbe intervenire. Invece di chiarire questo aspetto fondamentale, il governo preferisce osservare il festival delle ovvietà, del tipo lettera dell'onorevole Boldrini, a cui rispondono compunti i suoi avversari: stessa fuffa, identica supponenza.

Per un investitore la "situazione" di Fiat Auto è oggi, al netto di Chrysler (merito a Marchionne: è stata una genialata, e pure fortunata) e al netto di Fiat Industrial (altro merito suo lo scorporo), la stessa di quando nel 2004 Marchionne arrivò: nel business dell'auto non esistono né Boogeyman, né Mandrake.

Siamo all'ultimo miglio, lasciamolo lavorare in pace, la fusione e l'Ipo (quotazione a Wall Street) saranno il grande successo della sua vita, il "massaggio" sul titolo è cominciato da mesi, le banche d'affari coinvolte tra poco inizieranno il classico battage finale, tipo quotazione Facebook (e si divideranno ricche commissioni), gli investitori storici esulteranno, i pavidi come me si sfileranno.

E l'Italia? Nel 2004, oltre ad avere ancora un'eccellente industria della componentistica, era 11esima al mondo fra i produttori di auto, ora è 22esimo: i numeri ci inchiodano alla nostra dabbenaggine colta. Questo finale di Fiat Auto era prevedibile fin dal 2004, chiaro fin dal 2009, quattro gatti ne scrissero a lungo e in dettaglio, curiosamente allora nessuno volle prestar loro un minimo d'attenzione. E' triste assistere, impotenti, alla deindustrializzazione del proprio paese, specie di quella che è l'industria delle industrie, l'auto, e in parte dell'automotive, che ne è corollario.

 

 

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