VIVA CARLAMAGNA! (ALLA FACCIA DEL MADE IN ITALY CAPACE SOLO DI INCASSARE SENZA MAI DARE) - LA FENDI, CHE DOPO AVER VENDUTO LA CASA DI MODA HA MESSO SFORZI E PATRIMONIO AL SERVIZIO DELLA CULTURA, E FINANZIA CON DUE MILIONI DI EURO IL FESTIVAL DEI DUE MONDI DI SPOLETO - L’INVESTIMENTO PUBBLICO NELLA CULTURA NEGLI ULTIMI DIECI ANNI È DIMINUITO DEL 36,4%, QUELLO PRIVATO DEL 38,3% - “INCENTIVANDO LA CULTURA, SI INCENTIVA ANCHE L’ARTIGIANATO. MA IN ITALIA LA BUROCRAZIA STROZZA TUTTO”...

Anna Bandettini per "Affari & Finanza" - la Repubblica

Alla festa che ha celebrato, giorni fa, la conclusione del prezioso restauro e il recupero del sipario ottocentesco e dello spazio scenico con le sue quinte, le mantovane e gli antichi fondali del teatrino di Spoleto, il piccolo e storico Caio Melisso, è finita che si sono commossi tutti. La sua amica Liliana Cavani, la regista di Il portiere di notte, le ha anche confessato: «Carla, io sono una dura, anzi una durissima, ma tu oggi ci hai sciolto il cuore».

Lo ricorda con orgoglio Carla Fendi, l'ex-signora della moda che dal 2008 sostiene, con la Fondazione che porta il suo nome e finanziata con il patrimonio personale, il Festival dei Due Mondi di Spoleto appena concluso: in poco tempo si è impegnata a restaurare in un progetto triennale l'ottocentesco teatro Caio Melisso, a cominciare dai sipari (entrambi di Domenico Bruschi artista dell'800: «Bastavano due mesi che diventavano spazzatura», dice), ha sostenuto i costi per le scenografie dell'opera inaugurale e ha messo in moto una preziosa rete di iniziative per il fund raising incentivando l'impegno di amici e privati di buona volontà intorno al festival.

Con un investimento di un milione per il restauro, più 600 mila euro in due anni per gli spettacoli, più le spese per il fund raising (il totale si avvicina ai due milioni di euro), Carla Fendi è la munifica filantropa di Spoleto («ho scelto il festival perché ho conosciuto il suo fondatore Gian Carlo Menotti, una personalità geniale e, dopo la sua morte, l'attuale direttore Giorgio Ferrara, artista straordinario») ma anche di altre iniziative per la cultura che vanno dal sostegno alla pubblicazione di libri, all'istituzione di borse di studio e premi artistici, fino all'assistenza alle attività di enti e istituti che promuovono valori culturali.

È un caso non comune sia nel mondo della Moda, spesso avaro verso la collettività («forse perché da noi è stata a lungo snobbata, sentita come una attività con poca credibilità, mentre in Francia già veniva osannata») sia in generale, in un paese come l'Italia dove se l'investimento pubblico nella cultura è diminuito in dieci anni del 36,4 per cento, i fondi privati non sono da meno: secondo Federculture, le sponsorizzazioni dal 2008 hanno subito un crollo del 38,3 per cento, una cifra drastica che racconta il progressivo disimpegno delle imprese ai fatti culturali.

«L'incertezza dello scenario economico e una atavica indifferenza degli italiani alle bellezze e ai valori culturali del paese sono forse le motivazioni di un quadro così amaro. Ma io non sono pessimista e resto convinta che la filantropia culturale può essere una leva di sviluppo per l'Italia, e dunque va incentivata», dice Carla Fendi. Su come il mecenatismo possa essere un volano di crescita lo racconta la sua storia. Settantacinque anni da poco compiuti, quarta delle cinque sorelle Fendi, sposata, senza figli, è l'unica ad aver mantenuto una carica, presidente onorario, nell'azienda dopo che nel 2000 fu acquistata dal gruppo Lvmh.

«La nostra è stata una storia gloriosa, nata nel 1925 in una boutique di Roma -dice - ma oggi penso che le mie sorelle ed io abbiamo agito nel modo giusto nel decidere di vendere l'azienda. Capimmo per tempo che nel mondo di oggi il marchio Fendi doveva diventare globale e noi da sole non ce l'avremmo potuta fare». Il ruolo di mecenate lo svolge dal 2007, attraverso la sua Fondazione, una delle più attive in Italia nello sponsoring culturale che lei, alla maniera anglosassone, considera un obbligo morale di chi è benestante, il modo per restituire alla società una parte del proprio denaro.

«Il mecenatismo parte sempre da una sensibilità personale, meglio da una educazione personale che a mio parere andrebbe incentivata. Le mie sorelle ed io abbiamo avuto dai nostri genitori una educazione civica forte. Il suolo pubblico è più importante di quello privato, diceva mia madre: bisogna amarlo più della propria casa. E devo dire che sono cresciuta vedendo fare cose superbe ai miei genitori. Mia madre tornò a casa piangendo quando seppe che il Caffè Aragno, a cui tavoli era passata tutta la cultura italiana, veniva chiuso».

Oltre all'educazione famigliare c'entra poi quello che Carla Fendi ha imparato in America dove «vedi che chi è ricco sente il bisogno di donare al proprio paese. Lì addirittura i figli sono perfino d'accordo che l'eredità venga destinata alla collettività.... È un fatto di educazione: imparare fin da piccoli la responsabilità verso la collettività. Se invece che andare alle Maldive senti il bisogno di restaurare un teatro è perché lo senti come impegno personale.

Ecco, in Italia quello che ci vorrebbe è proprio un maggiore senso civico, la consapevolezza che vivendo in un paese meraviglioso, esso vada preservato, restituendo parte di quello che abbiamo. Io lo insegnerei ai giovani, obbligandoli a lavorare, anche nei mestieri più umili, se necessario, in modo da disciplinarsi. Impegnarsi per valori utili alla società come lo sono quelli culturali è un capitale essenziale quanto quello economico». Un capitale valoriale che incentiva visioni sul futuro, ottimismo e dunque anche crescita, è la convinzione di Carla Fendi che oltre a finanziare, segue personalmente le attività legate alle sue donazioni. «Anche questo deve far parte della filantropia».

C'è anche un aspetto più pratico, concreto che può fare della sponsorizzazione culturale una spinta economica. E l'esperienza di Carla Fendi lo dimostra. «Finanziando un contesto artistico, dai lavoro agli artigiani che nel caso dell'Italia costituiscono il vero benefit del paese, un benefit che invece oggi rischia di disperdersi o perdersi del tutto e che invece è il cuore vero del nostro tessuto produttivo.

L'Italia ha l'artigianato migliore del mondo, parlo di falegnami, elettricisti, pellettieri... La Francia fa fare la maglierie nelle piccole manifatture dell'Emilia. Le esperienze di mecenatismo culturale spesso legate alla tutela e conservazione di beni e luoghi comporta lavoro per questi artigiani. L'ho constatato io stessa a Spoleto dove abbiamo lavorato con aziende del luogo sia per il recupero dei sipari che per il restauro del teatro dove abbiamo fatto una gara d'appalto, pur tra mille difficoltà burocratiche, fortunatamente superate».

Sì, perché uno dei freni al mecenatismo in Italia è l'intrico burocratico che spesso strozza le migliori intenzioni, come è stato il caso di Diego Della Valle con il Colosseo a Roma.... Il problema è che se accanto alla sensibilità personale del mecenate non si attiva una sensibilità politica non si va molto lontano.

Una politica seria dovrebbe creare le condizioni favorevoli che rendano possibile e vantaggioso fare investimenti: «Certo, vanno alleggerite le burocrazie e poi ci vuole la defiscalizzazone. Non dico come in America dove defiscalizzi anche le macchine di lusso se sono di rappresentanza, ma almeno sulle donazioni culturali facciamolo. Alla fine entrerebbero più soldi allo Stato, perché chi dona alla cultura fa lavorare altra gente e si incentiva la crescita», insiste Carla Fendi. Un'altra strada sono le partnership: privati che si possono unire, mettersi insieme in progetti specifici.

«All'estero lo fanno e sicuramente sarebbe una soluzione a molti problemi di investimento». Certo, in un momento di buio economico come questo, pare un'utopia parlare di promozione della cultura e di investimenti dei privati. «Lo so. Fino a non molto tempo fa eravamo in mutande, praticamente in bancarotta e con nessuna credibilità internazionale, ora abbiamo la credibilità ma sempre in mutande siamo. La situazione è tragica, pochi vogliono investire.

E gli stranieri, che pure potrebbero fare molto per il nostro patrimonio artistico e culturale, hanno diffidenza verso il nostro sistema paese. Se ci mette tutto il resto, spesso chi fa filantropia culturale in Italia si sente un mosca bianca, lo ammetto. Ma bisogna instillare questo obbligo morale: che se anche non si è in grado di sostenere concretamente i valori culturali, hai almeno la sensazione che sarebbe bello poterlo fare».

 

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