S.P.Q.S.: SONO PAZZI QUESTI SVIZZERI? - GLI ELVETICI HANNO DETTO “NO” AL REFERENDUM CHE PROPONEVA IL SALARIO MINIMO DA 3.250 EURO: LA DISTORSIONE DEL MERCATO AVREBBE FATTO SPARIRE POSTI DI LAVORO

1. S.P.Q.S.: SONO PAZZI QUESTI SVIZZERI?
DAGOREPORT

Ieri si è tenuto in Svizzera un referendum sul salario minimo il cui risultato può sembrare per noi italiani sorprendente. Analizzando questo risultato ci rendiamo conto che l'esito non poteva essere differente e questo per una serie di ragioni profondamente legate a logiche economiche volte al pieno impiego.

Non bisogna infatti dimenticare che la Confederazione ha uno dei tassi di disoccupazione più bassi al mondo, risultato di una forte attrattiva per gli investimenti esteri, l'assoluta libertà di licenziamento da parte delle imprese, un mercato dell'energia a costi sostenibili, forte della importante quota di energia rinnovabile, un sistema di trasporti efficientissimo, che garantisce una elevata mobilità dei lavoratori tra i vari cantoni ed un modello di sviluppo capitalistico quasi puro dove la burocrazia svolge il proprio ruolo in maniera efficientissima, ovvero quello di servizio alla produzione, garantendo gli investitori che vengono, al contrario di ciò che accade in Italia, incentivati al rischio.

La consuiltazione popolare sul salario minimo (i 4000 Franchi Svizzeri, circa 3250 Euro, possono sembrare molti ma non bisogna dimenticare che a questi va sottratta l'assicurazione medica obbligatoria, che in una famiglia di 4 persone arriva facilmente a 1000 Franchi al mese e l'alto costo degli affitti in un paese dove solo il 30% dei residenti è proprietario di casa) promossa dai partiti di sinistra avrebbe posto, dopo il si al referendum sul ripristino delle quote per gli stranieri, il rischio di un blocco al fantastico modello svizzero e la popolazione stavolta non ha commesso lo stesso errore commesso poche settimane al precedente referendum.

La reintroduzione delle quote per gli stranieri sarà infatti un grande problema per le imprese perchè, a differenza di quello che alcuni partiti di destra hanno fatto credere, invece di portare maggiore occupazione per gli svizzeri determinerà la scomparsa di posti di lavoro. Di tutti quei posti di lavoro che gli imprenditori avrebbero creato ma al costo del lavoratore straniero, disposto a trasferirsi nella confederazione a livelli salariali marginali, che lo svizzero non accetterebbe mai.

Identico discorso può essere fatto per il salario minimo. Gli economisti (almeno quelli austriaci ed in genere tutti quelli che credono nei vantaggi del libero mercato) sanno che quando si fissa il prezzo di un bene (in questo caso il lavoro, che è un fattore produttivo) accade che il bene stesso scompaia dal mercato. Sembra strano ma è una legge ferrea di mercato. E' già successo nella storia e basta ricordare l'esperienza della vecchia Unione Sovietica. All'epoca veniva fissato il prezzo del pane perchè si diceva che tutti dovevano avere accesso a questo bene primario.

Il prezzo di un Rublo al chilo, secondo quel tipo di economia socialista, doveva servire a questo scopo. Il risultato era invece che il pane scompariva dai mercati e lo si trovava solo al mercato nero, al prezzo di 3 Rubli al chilo: 1 Rublo era il prezzo ufficiale, 1 Rublo rappresentava il margine di guadagno per i panificatori ed 1 Rublo remunerava il rischio di essere presi a fare mercato nero. Rendere rigido il prezzo del bene determinava l'impossibilità del panificatore di adeguare lo stesso al prezzo dei fattori produttivi, con il risultato che il pane spariva dai mercati.

Una delle regole ferree dell'economia dice che, allo stesso modo che per il pane in Russia, fissare il costo (per l'imprenditore) del fattore produttivo lavoro ad un minimo ha lo stesso effetto: fa sparire posti di lavoro ed incentiva il mercato nero degli stessi.

I contribuenti svizzeri hanno capito qual'era il rischio ed hanno saggiamente votato per il no al referendum. La Svizzera ha già enormi problemi con l'amministrazione USA per e attività bancarie illecite svolte dalle banche svizzere sul suolo americano e con i partner europei su una serie di fronti e tra i principali quello della richiesta di cessazione del dumping fiscale sulle imprese.

Il dumping fiscale è stato possibile negli ultimi decenni grazie agli enormi profitti del settore bancario, protetto dal segreto bancario oramai al tramonto. Accettare uno strumento tipico dei modelli economici a pianificazione centralizzata dell'economia (il salario minimo) sarebbe stato troppo anche per un paese con pochi scrupoli come la Svizzera.


2. NO AL SUPERSALARIO MINIMO - LA SVIZZERA RESTA FLESSIBILE
Claudio Del Frate per il ‘Corriere della Sera'

E' svanita in pochi minuti l'illusione che la Svizzera potesse diventare l'Eldorado dei lavori salariati: con una schiacciante maggioranza del 76,3% è stato infatti bocciato il referendum con cui si voleva introdurre uno stipendio minimo per legge di 4.000 franchi (pari a 3.200 euro), che avrebbe significato la paga base più alta del pianeta. In concreto, svanisce soprattutto il sogno per i circa 60 mila italiani che lavorano nella Confederazione Elvetica, di vedere la loro retribuzione equiparata a quella degli svizzeri.

La consultazione promossa dai sindacati e dal partito socialista non aveva molte chances di affermazione già in partenza: parere contrario avevano espresso il governo, le organizzazioni imprenditoriali e i partiti di centro e di destra. Dalle urne è uscito un verdetto privo di ogni chiaroscuro: la bocciatura è arrivata da tutti i Cantoni, nessuno escluso, con punte dell'87% di no.

Proprio a voler tentare la scomposizione di un dato così monolitico si può abbozzare una sola considerazione: i sì hanno contenuto la sconfitta, raggranellando il 38%, solo a Ginevra e nel Canton Ticino, guarda caso i due territori dove più alto è il ricorso a lavoratori stranieri (francesi in un caso, italiani nell'altro) mentre il no ha dilagato nei cantoni dove la presenza di manodopera d'importazione è molto scarsa.

L'iniziativa referendaria era nata con uno scopo preciso: frenare il ricorso a forza lavoro non elvetica, che è pronta ad accettare paghe più basse della media dando luogo a un fenomeno di dumping salariale. Se a febbraio i partiti di destra avevano dato una risposta a questo fenomeno proponendo (e vincendo) un referendum con il quale si chiedeva al governo di introdurre per legge un tetto all'impiego di lavoratori stranieri, da sinistra si è cercato di contrapporre una diversa impostazione e cioè l'innalzamento dei salari. Ma il mainstream svizzero, contrario a ogni ingerenza dello Stato nei rapporti di lavoro tra privati, ha affossato la proposta.

La consultazione, del resto, aveva un valore poco più che simbolico: nella Confederazione il 90% dei dipendenti ha già una busta paga ben più pesante di 4 mila franchi mensili, nonostante soltanto poco più della metà di essi sia tutelato da un contratto di lavoro nazionale (gli accordi aziendali sono la norma); sotto questa soglia ricadono all'incirca 330 mila persone tra cui è compresa la gran parte dei frontalieri, vale a dire gli italiani che quotidianamente vanno e vengono dalla frontiera per ragioni di lavoro. Ecco perché la consultazione di ieri avrebbe potuto avere paradossalmente ricadute maggiori sull'Italia anziché sulla Svizzera.

«Gli elettori hanno espresso un voto ragionevole - ha commentato all'agenzia Swissinfo il presidente del Partito popolare democratico Christophe Darbellay - poiché la vittoria dei sì avrebbe finito per colpire quelle figure che intendeva proteggere». Per il Partito liberale-radicale è invece stata scongiurata una minaccia alla competitività dell'economia svizzera.

A Lugano esulta la Lega dei Ticinesi, il partito di maggioranza che da anni ormai fa dell'innalzamento di barriere nei confronti dell'Italia la sua bandiera politica: «Il referendum ha asfaltato la sinistra - dichiara il capogruppo Daniele Caverzasio - e l'introduzione di un salario lineare era una proposta sbagliata. Ma è anche vero che c'è chi cerca di sfruttare la difficile situazione dell'economia italiana e favorisce gli abusi. Adesso gli imprenditori siano i primi a dimostrare responsabilità sociale».

 

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