GLI USA INONDANO IL MONDO DI GREGGIO E L’AFRICA TREMA

Maurizio Molinari per La Stampa

La produzione di greggio in Nordamerica accelera e provoca una spaccatura nell'Opec sulle contromisure da adottare. Nel 2011 gli Stati Uniti hanno estratto 4,6 milioni di barili al giorno, alla fine di quest'anno saranno a 7,3 milioni e nel 2014, calcolando anche il Canada, arriveranno a 14,5 milioni. E' il risultato del boom di estrazione di «shale oil», iniziato nel 2008 grazie alla tecnica del «fracking» - la trivellazione orizzontale - che ha consentito di accedere a giacimenti finora non raggiungibili in North Dakota e Texas.

A subire l'impatto sul mercato del greggio sono i Paesi che finora hanno esportato negli Stati Uniti il greggio più simile allo «shale oil»: Algeria, Nigeria e Angola hanno registrato nel 2012 una diminuzione dell'export del 41 per cento e la tendenza continua. Si tratta del blocco africano dell'Opec che venerdì a Vienna, alla riunione dei maggiori Paesi produttori, chiederà di diminuire l'estrazione per mantenere alti i prezzi.

Al momento il barile si aggira sui 102 dollari ma l'Algeria avrebbe bisogno di portarlo a 121 dollari per tenere in equilibrio il bilancio facendo fronte al calo di entrate e anche la Nigeria ammette le difficoltà. «Lo shale oil americano per noi è fonte di gravi preoccupazione» ammette il ministro del Petrolio nigeriano, Diezani Alison-Madueke. Gli africani tenteranno un accordo con l'Iran, che ha bisogno dei prezzi alti per far fronte all'impatto delle sanzioni stimato in una perdita di circa 26 miliardi di dollari, ed al Venezuela alle prese con una crisi galoppante.

Sul fronte opposto, ad opporsi ad una riduzione della produzione c'è l'Arabia Saudita che non solo è il tradizionale alleato di Washington ma non ha sofferto l'impatto dello shale oil per due ragioni: produce un tipo di greggio diverso ed ha più compratori degli africani. Ecco perché il ministro del Petrolio di Riad, Ali al-Naimi, si dice «non preoccupato dallo sviluppo di fonti non convenzionali di energia» sottolineando che «la domanda globale di greggio continua ad aumentare» soprattutto in Asia.

Ma gli africani restano all'attacco. «Lo shale oil ci minaccia» afferma la nigeriana Alison-Madueke. «Se le entrate continueranno a scendere, lo shale oil ci obbligherà a ridurre la spesa pubblica» aggiunge allarmato il ministro delle Finanze algerino Karim Djoudi. Ciò che più preoccupa il fronte Africa-Iran-Venezuela è l'aumento del petrolio in eccesso sul mercato: rispetto ad una media di mezzo milione di barili, lo shale oil lo ha fatto lievitare a 1,5 milioni.

Come se non bastasse la commissione Energia della Camera dei Rappresentati di Washington ha deciso di esaminare la proposta di porre fine al divieto di esportare petrolio, compiendo il primo passo verso la trasformazione degli Stati Uniti in un aperto rivale dell'Opec.

I Paesi candidati a diventare clienti degli Stati Uniti sono anzitutto quelli che consumano petrolio leggero, a cominciare dall'Europa Occidentale - come indica un recente studio di Royal Dutch Shell presentato a Washington - e ciò significa per le compagnie texane la possibilità di competere con i fornitori russi e nordafricani finora dominatori nel Vecchio Continente.

Si tratta di un capovolgimento dell'equilibrio Opec-Stati Uniti che sin dall'embargo del 1973 aveva visto Washington oggetto di ricatti e pressioni dei Paesi produttori. A conferma di tale cambiamento c'è il fatto che se passasse a Vienna l'aumento del prezzo a giovarsene sarebbero comunque gli Stati Uniti in ragione del fatto che l'estrazione dello shale oil diventa attraente per i petrolieri quando il barile supera i 70 dollari. Dunque, più sale il costo del greggio, più shale oil verrà estratto.

 

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