I DEPORTATI DI VIA SOLFERINO: I TAGLI AL “CORRIERE” SONO UN PROBLEMA DI IMMAGINE PIÙ CHE DI PORTAFOGLI

Paola Peduzzi per "Il Foglio"

"I Padroni dell'Universo erano alcuni bambolotti di plastica lividi e rapaci con i quali sua figlia, altrimenti perfetta, amava giocare. Avevano l'aspetto di divinità nordiche che sollevano pesi e si chiamavano Dracon, Ahor, Mangelred e Blutong. Erano insolitamente volgari, nonostante fossero giocattoli di plastica. E tuttavia un bel giorno, in un'esplosione di euforia, dopo aver sollevato il telefono e aver preso un ordine di obbligazioni che gli aveva fruttato cinquantamila dollari di commissione, proprio così, sull'unghia, quella definizione gli era germogliata nel cervello.

A Wall Street lui e alcuni altri... quanti?... trecento, quattrocento, cinquecento?... erano diventati proprio questo: Padroni dell'Universo. Non c'era... un limite! Naturalmente non aveva neppure sussurrato questa definizione ad anima viva. Non era uno sciocco. Eppure non riusciva a togliersela dalla testa". ("Il falò delle vanità", Tom Wolfe, 1987)

Una deportazione. Se non capisci che muoversi da Via Solferino è una deportazione, non puoi capire nulla del Corriere della Sera". La "deportazione" è il trasferimento della redazione del giornale più influente d'Italia, diretto da Ferruccio de Bortoli, dalla storica sede nel centro di Milano alla periferia nord-est della città, via Angelo Rizzoli, tre palazzi e una torre ideati da Stefano Boeri a due passi dal parco Lambro.

Là c'è già un bel pezzo di Rcs Mediagroup, ci sono i periodici con la loro triste fama di essere un buco nero di perdite ("Ora che l'azienda ha annunciato che venderà o chiuderà dieci testate, secondo te chi è che vorrà più metterci un euro di pubblicità, in questi zombie?"), i Libri, la pubblicità, i new media e gli uffici di staff. C'è ancora tanto spazio, un palazzo intero, quanto basta per ospitare i giornalisti del Corriere e della Gazzetta dello Sport. Ma loro non si vogliono muovere.

Il trasferimento da Via Solferino è la sintesi dello scontro tra la redazione del Corriere e la proprietà del gruppo, uno scontro sui numeri e sui simboli che rivela la crisi di Rcs Mediagroup: non si tratta del logorio tra tanti azionisti - "una catena di comando lunga, tanti interlocutori, almeno a Repubblica la governance è snella", sospirano - che operano in un settore in crisi; non è la solita anomalia del Corriere con il suo Patto di sindacato, i tanti azionisti che, nel tempo, hanno cercato di imporsi uno sull'altro, condizionando il gruppo e il quotidiano, senza mai preoccuparsi davvero di fare gli editori.

Non è una storia già vista: c'è chi parla addirittura di "concordato preventivo in arrivo", pure se è difficile immaginare che qualcuno voglia davvero prendersi la responsabilità di far fallire il Corriere della Sera. Ma se tutti considerano inevitabile un bailout di Rcs, chi lo pagherà? Nessuno lo sa, però alla redazione di Via Solferino non importa nemmeno trovarla, una risposta. In un momento in cui razionalità vorrebbe che, per salvare il posto di lavoro, i giornalisti fossero disposti a qualche sacrificio, si scopre che no, ci sono valori non negoziabili.

Abbandonare la sede storica di Via Solferino non è soltanto un crollo della qualità della vita, non significa soltanto rinunciare ai pranzi al Rigolo, il ristorante dei giornalisti del Corriere, che con i suoi cartelli artigianali, gialli a fiorellini, annuncia che a Pasqua e a Pasquetta è aperto, capretto arrostito per tutti; non significa soltanto rinunciare al menu milanesissimo, fegato di vitello al burro compreso, della Latteria, che sta proprio di fronte all'entrata degli uffici in via San Marco, un palazzone giallo che è la "parte nuova" della struttura ed è già una mezza città fantasma; non significa neppure soltanto rinunciare alla mensa, dove si mangia alla grande.

Nella storia del Corriere l'eccellenza è talmente legata al luogo, a Via Solferino, che la regola vale anche per il cibo: la società che rifornisce le due mense di via Rizzoli è la stessa, eppure là serve pranzi orrendi. Spostarsi non è soltanto un imbarbarimento ("non c'è un posto decente dove andare a mangiare!", "esci dalla metropolitana e fai dieci minuti di strada nel far west!", "c'è un unico supermercato che però chiude dalle 13 alle 15, inutile!"), spostarsi è perdere l'immagine, è perdere la tradizione - spostarsi è perdere l'anima. "Lei aveva ragione. Il Padrone dell'Universo era mediocre, marcio. E anche bugiardo".

L'amministratore delegato di Rcs, Pietro Scott Jovane, ha annunciato un piano triennale di ristrutturazione lacrime e sangue, "quel che la Merkel fa con il resto dell'Europa, per intenderci": austerità pura, rigore nei conti, tagli drammatici. E il rilancio? Più avanti ci si penserà, forse - replica fedele di quanto la governance europea ha fatto all'inizio della crisi dell'euro, salvo poi accorgersi che senza strategia per la crescita nemmeno il rigore più estremo può avere successo.

I numeri del piano sono corposi: un risparmio di 80 milioni in tre anni, 800 persone considerate in esubero, di cui l'80 per cento in Italia (il resto in Spagna), così distribuiti: 270 in via Rizzoli, 110 giornalisti dei periodici (su circa 250, di cui buona parte nelle dieci testate messe in vendita o, se non si trova un acquirente, da chiudere: Novella 2000, Visto, A, Max, Astra, Ok Salute, Bravacasa, L'Europeo, Yacht & Sail e le testate dell'enigmistica), 110 giornalisti al Corriere (su circa 350), tra 30 e 40 giornalisti alla Gazzetta (con i quali si è arrivati a un accordo che prevede anche la riduzione degli stipendi), 100 poligrafici.

Gli amministrativi sono terrorizzati: loro non sono come i giornalisti, che appena li tocchi scatenano campagne di stampa devastanti, loro si sentono già sacrificati. Gli esuberi del Corriere sono quasi un terzo della redazione, abbastanza per "sfigurarla", come dice al Foglio il comitato di redazione (cdr). Ma quel che pesa non è soltanto l'orrore all'idea di perdere soldi e benefit ("i benefit non sono benefit, fanno parte della retribuzione", sottolinea sempre il cdr), è il senso di ingiustizia.

"Noi andiamo bene" è il ritornello lacrimevole di questa storia, "il gruppo perde un sacco di soldi ma noi andiamo bene. Non si fa che parlare della crisi del Corriere, ma il Corriere non è in nessuna crisi, il Corriere va bene". All'ultimo consiglio d'amministrazione, mercoledì, presieduto da Angelo Provasoli, sono stati esaminati i risultati preliminari consolidati del 2012: i ricavi sono in calo rispetto al 2011, il margine operativo lordo si è più che dimezzato, e le prospettive per il 2013 non sono rassicuranti: "I primi due mesi del 2013 hanno evidenziato uno scenario macroeconomico in peggioramento rispetto a quanto previsto a livello europeo a fine 2012", dice il comunicato del consiglio.

Le perdite a settembre del 2012 erano di 381 milioni di euro, ora sarebbero a 400, e pesa sulla resistenza dell'azienda un indebitamento di 880 milioni di euro (parte del debito, circa 700 milioni, scade entro il 2013). Per questo il consiglio d'amministrazione ha proposto un aumento di capitale di 400 milioni - "necessari per salvaguardare la continuità aziendale" - entro il luglio del 2013, e altri 200 milioni entro il 2015, per un totale di 600 milioni, che ancora non si sa se sarà approvato né se e da chi sarà sottoscritto. Ma il Corriere avrà un margine operativo lordo (ricavi meno costi redazionali, prima degli ammortamenti, dei costi finanziari e delle tasse) "nero", come specifica il cdr.

Il dato del margine operativo lordo, che è il primo margine industriale, è in calo: nel 2011 era di 40 milioni, nel 2010 di 70, per il 2009 di 100 e per quest'anno è stimato attorno ai 15 milioni di euro. Un nero sbiadito, certo, ma nero. Eppure il contributo che il Corriere deve dare per tenere in piedi il gruppo è alto, "ci è richiesto di raddoppiare la reddittività in un anno, il 2013, in cui il mercato è calante": solo a gennaio la pubblicità è scesa del 30 per cento.

 

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