FURBETTI NON LIMITS – DALLE CARTE DEL LUXLEAKS EMERGONO ANCHE LE TRIANGOLAZIONI CON LA SVIZZERA – I GRUPPI CON UN MARCHIO FORTE FANNO TASSARE I REDDITI IN LUSSEMBURGO POI PORTANO I PROFITTI NELLA CONFEDERAZIONE

Eugenio Occorsio per "Affari & Finanza -  La Repubblica"

 

lussemburgolussemburgo

Lo scandalo LuxLeak non finisce di riservare sorprese. Andando a scavare nei meandri degli accordi segreti delle multinazionali - tutti legali, per carità - si scopre per esempio un trucchetto ancora più sofisticato, che va addirittura al di là della “semplice” minitassazione del Lussemburgo, la quale diventa così solo una parte del gioco.

 

Prendiamo una società del lusso, che crea una sussidiaria nel Granducato a cui trasferisce la gestione del marchio. Fa il suo bravo ruling (il famigerato accordo con il governo del Lussemburgo che prevede la fissazione concordata del livello di tassazione) e comincia ad accumulare i proventi delle licenze del marchio provenienti da tutto il mondo. Il Lussemburgo applica in teoria una tassazione interna complessiva (e puramente nominale) intorno al 30%.

ikeaikea

 

Solo che in base al ruling l’imponibile viene abbattuto macroscopicamente fino a garantire una tassazione media per i profitti intorno al 5% ma anche fino all’1%. E dove va a finire tutto il resto dell’incasso, la differenza fra l’ammontare complessivo reale e quello assegnato al Lussemburgo (o all’Olanda dove la situazione è simile)? «Finisce in un’altra società, che la stessa multinazionale aveva precostituito, in un “vero” paradiso fiscale extra-europeo, sia esso la Svizzera o le Cayman, dove la tassazione è pressoché pari a zero», risponde Corrado Rosano, socio fondatore dello studio legale Nunziante Magrone.

 

«Chiamiamoli nuda proprietà la società in Lussemburgo che ha la legal ownership, e usufrutto la società svizzera sede della economic ownership ». Tutto ciò permette alla multinazionale di avere una società all’interno dell’Ue, con tutti i vantaggi del caso, solo che i profitti vengono assegnati per la maggior parte a una branch “paradisiaca” extracomunitaria.

 

PROCTER GAMBLE PROCTER GAMBLE

Qualcosa di simile l’ha fatto la Fiat, che non a caso è sotto la lente della Ue, ma almeno ha tenuto il luogo di gestione effettiva in Inghilterra e non in un paradiso fiscale, che non è una differenza da poco. Molto più spudorata è la Pepsi Cola, che ha scelto per la economic ownership le Bermuda, o l’Ikea che più tradizionalmente si è rivolta alla Svizzera - sempre a fianco della sede legale in Lussemburgo - o ancora la Procter & Gamble o la dinastia miliardaria belga De Spoelberch, proprietaria della Abinbev, maggior gruppo birrario del mondo (Budweiser, Corona, Stella Artois, Beck’s). Tutte aziende in possesso di marchi forti.

 

Ma lo scandalo porterà finalmente a qualche cambiamento? «Credo proprio di sì, non potrebbe essere diversamente », risponde Stefano Simontacchi managing partner di Bonelli Erede Pappalardo. «Che il Lussemburgo e l’Olanda costituissero delle eccezioni da normalizzare lo sapevano tutti, ed erano state aperte diverse inchieste dalla commissione, ma non era mai emersa una tale dovizia di particolari e di prove. Questa è unfair tax competition, non è un problema che investe il comportamento delle aziende bensì i rapporti politici all’interno della Ue e più in generale della comunità internazionale, come ricordano il G8 e il G20».

 

 LOGO PEPSI LOGO PEPSI

Sarà però un processo lungo, e nell’attesa l’Italia potrebbe entrare nella competizione fiscale. «Un tentativo viene fatto con la legge di Stabilità che dovrebbe introdurre agevolazioni fiscali per i beni immateriali come brevetti e marchi». Tutto deve avvenire però sulla base di regole precise e non soggette a interpretazioni di comodo, puntualizza Tommaso Di Tanno, titolare di uno studio tributario con 40 professionisti fra Roma e Milano.

 

«Il tax ruling esiste anche in Italia ma non viene applicato in modo scorretto come fanno Lussemburgo, Olanda e aggiungerei anche il Belgio, come uno strumento cioè di definizione della base imponibile. Invece la competizione degli Stati è giusta se avviene solo nel quadro di aliquote diverse, come succede nel campo Iva, ma con un quadro di funzionamento comune». La proposta di Di Tanno è «un’Autorità fiscale europea» dove replicare in modo vincolate la collaborazione comunitaria che avviene su base volontaria nei joint audit, ovvero le verifiche fiscali congiunte su multinazionali operanti all’interno dell’Ue. «Una collaborazione però basata solo sulla buona volontà delle Agenzie delle entrate dei singoli Paesi ». 

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