IERI, MOGGI E DOMANI – LUCIANONE CORE DE PAPÀ SI CONSOLA COSÌ: “NON È UN’INCHIESTA SOLO SU MIO FIGLIO, CI SONO ALMENO ALTRI 12 NOMI”

Marco Imarisio per "Il Corriere della Sera"

«Ascolta, non mi interrompere. Senti come gliela canto, a quello». Da qualche parte nell'inverno 2012, a bordo di un Frecciarossa diretto a Milano. Luciano Moggi parlava a voce alta leggendo dal suo portatile. L'articolo che stava declamando al telefono aveva come unico argomento Zdenek Zeman, all'epoca ancora allenatore della Roma. I due compagni di viaggio seduti davanti a lui sembravano desiderosi di compiacerlo. Annuivano e si davano di gomito a ogni passaggio particolarmente aspro, quindi sempre, perché il testo era una lunga invettiva contro uno dei suoi avversari storici.

Mentre parlava, Moggi scrutava gli altri passeggeri con espressione sospettosa. Nei suoi occhi non c'era più niente della sicurezza di un tempo. Anche la voce non aveva il tono divertito e ironico che fu un suo segno distintivo. Sembrava ci fosse solo amarezza, e risentimento. A un certo punto la lettura si interruppe. «No, ma che dici... Ma insomma, avrò ben diritto...». Comunicazione interrotta. Moggi fece un sorriso stiracchiato a favore dei suoi amici. «Alessandro si è incazzato...», spiegò. «Sapete, mio figlio dice sempre di lasciar perdere con le vecchie storie, di non cercarmi altri guai...». Gli altri due annuirono. L'ex direttore generale della Juventus richiuse il portatile. Sospirò. «Quando esce, vedrete il casino che scoppia». Chiuse gli occhi per un pisolino. Giorni dopo l'articolo venne pubblicato. Non accadde nulla.

Comunque la si pensi, non è giusto fare di tutti i Moggi un fascio. Tra padre e figlio ci sono affinità, interessi e forse metodi comuni. Ma esistono anche notevoli differenze. Luciano Moggi vive in un perenne passato di rimpianti e recriminazioni. Magari cavalca ancora il presente, come tiene sempre a ribadire. Ma ormai il suo habitat naturale è quel che è stato, e non sarà più. Ogni volta viene interpellato, compresa questa, le sue parole sono sempre rivolte all'indietro. «Come ormai sanno tutti, non conosco bene la materia, di calcio non so nulla, ci sono tante persone più brave e buone di me...».

Sembra un secolo fa. Nel 2006 Lucianone da Monticiano, baby pensionato delle ferrovie, è Moggi-Napoleone, il re del calcio italiano, molto chiacchierato ma altrettanto potente. Direttore generale, il più operativo della Triade che al tempo governava la Juventus. All'improvviso arriva Calciopoli, spartiacque morale del calcio italiano solo in apparenza, e viene giù tutto. Quasi tutto, a essere sinceri. Comunque Moggi cade, con un certo fragore.

Un attimo prima, con il monarca saldo sul trono, solo i vinti come Carlo Petrini, ex centravanti con la carriera stroncata dal primo scandalo scommesse, potevano osare: «È come un ragno che tesse la sua tela, poi fa gestire una marea di allenatori e giocatori dalla Gea». Gli altri ridevano. Come di consueto, dopo si aprirono le cataratte dell'io l'avevo detto. Quella sigla, acronimo di General Athletic, è il filo che tiene insieme le storie di ieri e di oggi. La società nacque nel 2001. Nel giro di pochi anni arrivò a gestire le procure di 150 calciatori, un vero esercito. Ne facevano parte i rampolli delle grandi famiglie dell'imprenditoria e del calcio italiano. A presiederla, non ancora trentenne, era il figlio di re Luciano.

Alessandro Moggi vive nel presente. Il passato gli ha lasciato cicatrici ben evidenti ma non lo ha fatto prigioniero, a differenza del papà, costretto a una esistenza calcistica da paria. In queste ore Moggi padre sta rivivendo un trauma per interposta persona. «Non è una inchiesta solo su mio figlio» dice. «Ci sono almeno altri 12 o 13 nomi, non solo il suo. Non cercate sempre di personalizzare, non scherzate con le persone». Alla domanda se il cognome del figlio abbia la sua importanza emette un sospiro che sembra carico di angoscia. «Non è a me che lo devi chiedere». Clic.

Moggi figlio è nato a Civitavecchia, ultima tappa di Luciano ferroviere. Ha studiato, laureandosi in giurisprudenza con un paio di master in management sportivo. Ha persino imparato le buone maniere, non dal padre. «Una storia nuova e diversa» dicono di lui molti procuratori e dirigenti.

Di sicuro è stato capace di ripartire. La posizione di monopolio della Gea divenne oggetto di un'inchiesta sul doping amministrativo. La società venne liquidata in piena Calciopoli. Le intercettazioni fecero emergere il suo tentativo maldestro di conquistare Ilaria D'Amico, con dolorose conseguenze familiari. La giustizia sportiva condannò Alessandro a quattro anni senza il patentino da agente. Quella penale a 5 mesi per violenza privata, in compagnia del padre. L'accusa più grave, associazione a delinquere, non resse al primo grado di giudizio.

Nella primavera del 2012 se ne ebbe nuovamente notizia. A Dubai era nata la Gea World Middle East, in società lui e Riccardo Calleri, altro figlio d'arte. Perché ancora quel nome? Non per sfida ma per affetto, fu la risposta. Nell'aprile di quest'anno è stata inaugurata la costola italiana. «Sono uscito da un abisso di sofferenza, chiedo solo di essere valutato come tutti gli altri». Alessandro Moggi parla come un libro stampato, il manuale del perfetto indagato. Le intemperanze dialettiche del padre hanno sempre avuto ricadute disastrose, e lui sa che questa nuova bufera potrebbe spazzarlo via, una volta per tutte.

«Sono abbastanza conosciuto, è naturale che il mio lavoro venga sottoposto a verifiche. Non credo ci sia una attenzione particolare. È giusto che il calcio venga sottoposto a controlli periodici. È successo, succederà ancora». Almeno su questo ha ragione il figlio del vecchio Luciano. Non è la prima, non sarà l'ultima volta. È la maledizione del nostro calcio. Come certi cognomi, come le storie nuove che finiscono sempre per essere troppo simili a quelle vecchie.

 

 

moggi luciano 002 lapLuciano Moggi visto da Emanuele Fucecchi moggi luciano 001 lapLuciano MoggiLuciano Moggi in aula da corriere it o laju45 alessandro moggiLuciano e Alessandro Moggi

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