ANCHE PER LA CINA LA CRISI S’AVVICINA: LA CRESCITA RALLENTA, I SALARI AUMENTANO E DIMINUISCE LA MANODOPERA A BASSO COSTO

Federica Bianchi per "l'Espresso"

La culla manufatturiera del mondo, la Cina, ha perso molti neonati quest'anno. Pechino ha infatti messo un freno involontario alla sua travolgente crescita trentennale. E lo ha fatto più velocemente del previsto, ritrovandosi con esportazioni di manufatti decimate e salari degli operai esperti quasi raddoppiati, proprio - ironia della storia - nel momento in cui l'economia guidata da Washington ha ripreso a correre, sostenuta dall'espansione del settore tecnologico, dalle scoperte dei giacimenti interni di gas, dalla ripresa del settore immobiliare e dei consumi domestici. Per la prima volta in trent'anni il capitalismo di stato e la modernizzazione imposta dall'alto non funzionano più così bene. Il vecchio modello di governance occidentale è tornato a brillare.

I n questa situazione la nuova leadership cinese, non potendo permettersi l'inerzia dorata tutelata da un efficiente apparato repressivo della ex coppia Hu Jintao-Wen Jiabao, sarà costretta, suo malgrado, a inventarsi percorsi di crescita alternativi alla pura manifattura a basso costo e agli investimenti illimitati in edilizia e infrastrutture. Una sfida non facile perché rischia di mettere in discussione i privilegi delle lobby di potere consolidatesi negli anni e di scatenare lotte interne al vertice della nazione.

Eppure è un percorso inevitabile per continuare a garantire al Paese il benessere promesso, alla leadership il potere e, dato politico non scontato, al mondo un bacino di sbocco per le esportazioni.

Già nel 2012 il Prodotto interno lordo della più dinamica economia mondiale era cresciuto solo del 7,8 per cento, il ritmo più basso degli ultimi 14 anni. Quest'anno, a causa del rallentamento delle esportazioni, le stime ufficiali vedono una crescita compresa tra il 7 e il 7,5 per cento, sempre che i dati rilasciati dall'Ufficio di statistica nazionale non siano edulcorati come sostengono alcuni osservatori.

Sono tassi pur sempre alti per un'Europa a crescita anemica, ma appena sufficienti per un'economia che aspira a essere in un paio di decadi la più grande del mondo e i cui salari medi sono ancora distanti da quelli delle avanzate economie di Stati Uniti, Unione europea e, a Oriente, di Giappone e Corea del sud. Una crescita del 7 per cento appare addirittura infima quando si considera la questione dell'"armonia sociale", ovvero del consenso offerto dal popolo al regime in cambio di una crescente ricchezza.

Il numero magico nelle carte di Pechino è tradizionalmente stato l'8, per la numerologia cinese sinonimo di fortuna e ricchezza (in Cina concetti difficilmente distinguibili). Una crescita del Pil inferiore all'8 per cento, da trent'anni obiettivo fisso dei piani quinquennali, secondo Pechino avrebbe messo a repentaglio il monopolio politico ed economico del Partito comunista. La Cina, tutti ne erano certi, non avrebbe potuto scendere sotto quella soglia, pena il disfacimento della Repubblica popolare. Invece è successo.

«Il nostro scenario di base prevede che la crescita dell'economia cinese passerà dal 7,4 per cento del 2013 al 6 del 2017», ha sottolineato Patrick Legland capo della ricerca globale di Société Générale. Le porte dell'Inferno politico non si sono ancora spalancate però si è diffusa la consapevolezza della necessità di un cambiamento. «Abbiamo raggiunto il punto di massima espansione», sottolinea Zhu Cao, corrispondente in Italia della televisione di stato Cctv: «Adesso l'economia dovrà rallentare e occorrerà anche che il governo redistribuisca la ricchezza, finora concentrata in poche mani».

Il problema chiave è che quasi il 50 per cento del Pil deriva dagli investimenti, rispetto a un terzo di solo vent'anni fa, con tutte le conseguenze del caso: eccesso di capacità produttiva, debiti delle aziende troppo elevati e un settore privato che è stato volutamente tenuto per anni ai margini in favore delle grandi imprese statali guidate dall'élite al potere. A questi elementi se ne aggiunge un altro decisivo: quello demografico.

Il bacino di manodopera a basso costo, che sembrava fino a qualche mese fa essere inesauribile in un Paese con 1,3 miliardi di persone, in maggioranza poveri, e che era stato indicato da tutti come l'asso nella manica di Pechino, pare si stia prosciugando. Secondo le stime delle Nazioni Unite la crescita della popolazione in età lavorativa sta decelerando bruscamente e nel quinquennio 2011- 2015 sarà solo dello 0,5 per cento. Il che vuol dire che gli operai in circolazione saranno sempre più scarsi e costosi. Non solo. Con la crescita della classe media la forza lavoro sta diventando più sofisticata.

«Negli ultimi dieci anni i laureati sono aumentati di cinque volte da 1,3 a 6,3 milioni e ci si aspetta che le università ne sforneranno una media di 6,5 milioni l'anno per i prossimi tre anni», scrivono gli analisti della banca Morgan Stanley. Per avere un dato di riferimento, negli Stati Uniti, l'economia più avanzata del mondo, dagli atenei ogni anno escono "solo" 3 milioni di laureati.

Sta diventando più difficile per questi milioni di cinesi istruiti trovare un lavoro congruo, un problema che potrebbe minare la stabilità sociale, come ha sintetizzato l'economista Shang-Jin Wei della Columbia Business School di New York al "New York Times": «L'unica cosa che preoccupa la leadership più di un operaio disoccupato è un laureato disoccupato». Il che vuol dire che per la Cina il cambio di marcia non è procrastinabile: l'economia non può produrre solo vestiti e giocattoli ma deve spostarsi verso produzioni ad alto valore aggiunto.

Le speranze del paese sono riposte sul primo ministro Li Keqiang, dottore in economia, dopo che per decenni i leader hanno avuto una laurea in legge o ingegneria. Da quando è stato nominato primo ministro la scorsa primavera non fa altro che ripetere che la Cina ha bisogno di aumentare i consumi interni, di limitare il credito alle imprese inutilmente produttive, di sostenere i piccoli imprenditori privati e di continuare nel processo di inurbamento che ha già portato oltre la metà della popolazione a vivere nelle città.

Ancora non si sono viste le misure chiave con cui intende raggiungere gli obiettivi anche se qualcuno ha già cominciato a diffondere il termine "Liconomics". Ma qualche settimana fa, quando l'indice degli ordini manifatturieri è sceso (per poi leggermente risalire a luglio) ai livelli più bassi dal 2009, Li è corso ad annunciare i primi provvedimenti di rottura con il passato come la chiusura di oltre 1.400 aziende in 19 settori per tagliare la capacità produttiva in eccesso, alcuni sgravi fiscali per le aziende con bassi fatturati e la possibilità per i privati di investire nella costruzione di ferrovie nelle regioni più arretrate.

Per la prima volta si tratta di stimoli ai piccoli imprenditori e non di investimenti a pioggia su progetti infrastrutturali inutili come, ad esempio, le bianche città fantasma della Mongolia interna volute nel 2009.

A credere nella capacità del Paese di compiere la transizione verso un'economia più bilanciata è Stephen Roach, ex presidente di Morgan Stanley Asia, il quale - scagliandosi contro tutti i pessimisti - mette in evidenza come il settore dei servizi stia crescendo più velocemente di quello manifatturiero ed edile. Un buon segnale, sostiene, perché il settore terziario può generare il 30 per cento in più di posti lavoro per unità di prodotto rispetto agli altri due e dunque può impiegare lo stesso numero di persone anche con un tasso di crescita del Pil inferiore.

Ma se il riposizionamento sbandierato dal premier non dovesse funzionare, almeno nell'immediato, allora l'economia potrebbe crescere al di sotto del 6 per cento. E in quel caso le conseguenze sarebbero importanti non solo per la Cina. «Potremmo avere un calo del prezzo dei metalli del 40 per cento, una rivalutazione del dollaro e una performance delle obbligazioni americane migliore degli altri mercati obbligazionari e azionari mondiali», spiega Legland di Société Generale.

A farne maggiormente le spese sarebbero i paesi esportatori di materie prime, soprattutto al di fuori del settore agroalimentare, come la Corea del Sud, la Malesia, il Cile, il Brasile, già fortemente in crisi, ma anche e soprattutto l'Australia, dipendente dall'appetito cinese per i derivati del ferro e per il carbone.

A tal punto Canberra sta subendo il rallentamento dell'economia cinese che quando il ministro delle finanze di Pechino Lou Jiwei, all'ultimo summit con gli Usa, ha annunciato che una crescita del 6,5 o del 7 per cento non avrebbe fatto differenza, il dollaro australiano è crollato raggiungendo i valori più bassi dal 2010.

In Europa invece a farne le spese è soprattutto la Germania, per cui la Cina rappresenta il primo mercato di esportazione al di fuori di un Vecchio Continente in cui i consumi sono asfittici: il marchio Bentley, posseduto dalla Wolkswagen, ha visto le vendite declinare del 23 per cento rispetto all'anno scorso e la Siemens, partner principale dei grandi investimenti infrastrutturali cinesi, ha avvertito che comincia a risentire del rallentamento dell'economia asiatica. Il tutto mentre Angela Merkel sta per affrontare a settembre elezioni in patria.

B en diverso appare lo scenario visto dall'altra sponda dell'Atlantico. «La ripresa economica non verrà messa a repentaglio dal rallentamento cinese», aveva annunciato il vicepresidente Joe Biden in un'intervista televisiva a "Bloomberg" durante una recente visita alla città- Stato di Singapore. L'economia maggiore del mondo ha ripreso a crescere a un tasso appena inferiore al 2 per cento annuo mentre i consumatori hanno ritrovato l'entusiasmo di un tempo.

«Il rallentamento cinese non avrà un grande impatto sulla crescita americana perché questa, a differenza di quella cinese, è determinata principalmente dal consumo interno», aveva spiegato l'economista asiatico Song Seng Wun: «L'economia americana è solida». Perché lo diventi anche quella cinese occorre che trovi consensi l'opinione di Zhu, il corrispondente in Italia della tv cinese: il governo deve cominciare a rafforzare la capacità di reddito della maggioranza della popolazione.

Lo potrebbe fare con poche, drastiche azioni, permettendo a tutti, senza discriminazioni, di usufruire dei servizi di base come la sanità e l'istruzione, liberalizzando la proprietà terriera e consentendo agli imprenditori privati di rimanere sul mercato senza dovere pagare dazio alla classe politica. Anche a costo di ledere gli interessi della propria cricca. In nome della Repubblica popolare di Cina.

 

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