1- "I NOSTRI TATUAGGI, I NOSTRI ANELLI AL NASO O AI CAPEZZOLI HANNO TANTE COSE DA DIRE: COMUNICHIAMO COSÌ IL NOSTRO DESIDERIO DI DIFFERENZIARCI DALLA MASSA" 2- BENVENUTI ALLA 13ESIMA EDIZIONE DI INTERNATIONAL EXPO TATTOO, ALL’ERGIFE DI ROMA 3- I MILIONI DI PERSONE CHE OGGI SI TATUANO, SI PERFORANO, SI SEGNANO, CERCANO PROPRIO DI FAR EMERGERE LA LORO STORIA, LA PERSONALITÀ, I GUSTI, GLI AFFETTI. QUASI CHE IL SIGNIFICATO DELL'ESSERE STIA IN UNA SORTA DI PALINSESTO DI SEGNI, PAROLE, IMMAGINI, EMBLEMI. UNA FORMA DI ANTAGONISMO ESTETICO INCISO SUL CORPO. UN'AUTOCERTIFICAZIONE CHE IL PROPRIO CORPO NON È A NORMA. E NON LO È NEMMENO L'ANIMA 4- UN GESTO DI CHIRURGIA PITTORICA. UNA SOCIALIZZAZIONE ESTETICA DEL SÉ. TRASFORMANDO IL PROPRIO CORPO IN UN BLOG ILLUSTRATO CHE TRASMETTE INFORMAZIONI NON STOP

Reportage di Mario Pizzi da Zagarolo

1- ERGIFE CHE TATUAGGIO
Anna Franco per www.ilmessaggero.it - Tatuaggi, intesi come strumento d'arte, ma anche e soprattutto come modo di mettere dei punti fermi con se stessi e quasi psicoanalizzarsi. Lo conferma un tatuatore di esperienza ventennale giunto a Roma da Bologna per la tredicesima edizione di International Expo Tattoo, che si è tenuta all'Ergife Palace Hotel di Roma.

2- LA TRIBÙ DEI TATTOO
Marino Niola per "L'Espresso"

Chi non è tatuato non è un uomo. Lo dicevano i caduveo, il popolo più tatuato del mondo insieme ai maori. Questi indios che abitano il Brasile centrale, resi celebri dal grande antropologo Claude Lévi-Strauss, assomigliano alle carte da gioco di "Alice nel paese delle meraviglie".

Autentici arabeschi viventi, sono letteralmente ricoperti di disegni geometrici, labirinti e spirali, quadrettature e asimmetrie. Per loro il corpo diventa umano solo grazie alla decorazione che vi segna a caratteri indelebili l'identità individuale, l'appartenenza sociale, lo status, il genere, il rango. Una persona senza tatuaggi non esiste, è semplice biologia, nuda vita per dirla con parole nostre. Solo i bruti e le bestie si tengono il corpo così com'è. È questa la filosofia tribale.

"I nostri tatuaggi, i nostri anelli al naso o ai capezzoli hanno tante cose da dire: comunichiamo così il nostro desiderio di differenziarci dalla massa". A dirlo è un internauta adepto del piercing. Una forma di antagonismo estetico inciso sul corpo, una differenza rivendicata sulla pelle. Un'autocertificazione che il proprio corpo non è a norma. E non lo è nemmeno l'anima.

E in più è come dire che il corpo, così com'è, non basta. È troppo poco, non significa abbastanza. È questa la filosofia globale. Che a tutta prima non è molto diversa da quella tribale. Entrambe infatti, sia con il tatuaggio sia con il piercing, riportano sul soma il significato più profondo della persona.

L'identità personale, quella della propria collettività, il senso del proprio essere, insomma un'intera storia incisa per sempre sull'epidermide. È proprio l'idea della pelle come pagina da scrivere e superficie da decorare, l'idea di un corpo istoriato, a fare da trait d'union fra il tribale e il globale. Perché nel dilagare contemporaneo del tattoo e delle trafitture più o meno profonde che ci infliggiamo - per etica e per politica, per poetica e per retorica, per estetica e per erotica - riaffiora un orizzonte arcaico.

Ma è un arcaismo postmoderno, un futuro anteriore nel vero senso del termine. Che mescola gli elementi tradizionali di queste pratiche, che servono a riconoscersi, a dichiararsi, a creare identità e differenza, assieme a elementi globali che, all'opposto, sconfinano quei codici particolari e li rendono universali, replicandoli all'infinito, traducendo dei motivi etnici e locali in un alfabeto somatico planetario.

Farfalle posate sulle spalle o stampate sui glutei, draghi spaziali arrampicati sui bicipiti, frasi celebri incise sugli avambracci, pittogrammi che si srotolano lungo la colonna vertebrale, stelle rosse su pugni rivoluzionari, svastiche su nuche reazionarie, aquile che enfatizzano deltoidi possenti, serpi sinuose per caviglie maliziose, mostri cyber e ogni sorta di esseri mutaforme per una body art che fabbrica murales viventi, graffiti a misura d'uomo. Un po' pirati, un po' galeotti, un po' guerrieri maori, un po' capi indiani, un po' ragazzi selvaggi anche a cinquant'anni.

Se il tatuaggio appartiene idealmente al campo della pittura e del disegno, il piercing invece si può considerare una branca dell'incisione e della scultura. Spilloni che trafiggono la lingua, cerchietti che pinzano le sopracciglia, anelli al naso, cilindri che fanno pendere a dismisura i lobi, palline di acciaio che sottolineano il profilo della bocca. Senza dire di quelle forme di piercing intimo che trasformano i luoghi dell'eros in scrigni tempestati di brillantini, eden proibiti per mostrare gioielli indiscreti.

Esibizionismo, vanità, moda? Certo, ma non solo questo. La lunga durata del fenomeno, la sua diffusione universale e il suo prepotente ritorno contemporaneo ci dicono che in tutti i tempi e in tutte le culture gli uomini hanno nel corpo il mezzo di comunicazione primaria. La pelle dice chi siamo.

Quando Cesare invase la Britannia fu impressionato dall'aspetto dei guerrieri locali che si dipingevano completamente di un azzurro indelebile per terrorizzare i nemici. Pare addirittura che il nome britanni derivi da una radice indoeuropea che significa incisione. E gli antichi scozzesi erano chiamati picti, ovvero dipinti, perché si tatuavano il corpo secondo il loro rango e il loro valore. Un po' come avere le stellette e le medaglie impresse direttamente sull'epidermide.

L'idea è che più la persona è importante più informazioni deve archiviare il suo corpo. Quello imponente dei principi maori era letteralmente zippato di segni che illustravano le loro gesta e riassumevano le tappe di una vita gloriosa. Qualcosa fra l'obelisco vivente e le colonne imperiali romane. Nei grandi reami Yoruba dell'Africa subsahariana, gli unici ad essere completamente privi di tatuaggio erano gli schiavi: grado zero della scrittura sociale grado zero della persona. Uomini senza storia e senza memoria.

In fondo i milioni di persone che oggi si tatuano, si perforano, si segnano, cercano proprio di far emergere la loro storia, la personalità, i gusti, gli affetti. Quasi che il significato dell'essere stia in una sorta di palinsesto di segni, parole, immagini, emblemi. La parte più importante di noi diventa così quella visibile, quella che compare in superficie. Secondo un procedimento di somatizzazione sociale e simbolica, una esteriorizzazione di sé che è l'esatto opposto di quello che noi intendiamo per interiorità.

D'altronde per una civiltà in progressiva secolarizzazione come la nostra - che si allontana sempre di più dall'idea dell'uomo immodificabile perché fatto a immagine e somiglianza di Dio - l'essere è fatto a immagine e somiglianza dell'io. E dunque il corpo tatuato è il grande ologramma dell'uomo contemporaneo. E della sua ansia di comunicare. Mentre nelle società tradizionali il tatuaggio è legato a un riconoscimento dell'intera collettività che attribuisce a certi segni un significato condiviso.

Spesso con un valore iniziatico. Al contrario, nella società dell'individualismo di massa, le persone si iniziano da sole. E da sole scelgono le parole per dirlo. Se il tatuaggio tradizionale è una segnatura che socializza, è il verbale somatico di un dialogo tra individuo e società, nella civiltà globale il dialogo avviene tra l'individuo e se stesso o al massimo il suo gruppo, proprio per differenziarsi dal resto della società.

Come nelle culture giovanili. Una pelle antisociale dunque, ma anche un segnale ad alta risoluzione rivolto a spettatori anonimi che non sanno nulla di noi. Fatto per essere visto, magari in mondovisione, come nel caso dei tatuaggi di Totti, di Ibrahimovic, di Hamsik, che esibiscono alla platea mediatica tutto quel che c'è da sapere su di loro. Amori, figli, successi, pensieri. Corpi monologanti, corpi emittenti, corpi in cerca di share.

E in ogni caso, a dispetto dell'apparente frivolezza narcisistica, l'indelebilità del tatuaggio rappresenta una sorta di sfida lanciata al panta rei che governa il presente, alla bulimia di un mondo che consuma e dimentica con la stessa superficiale velocità. Al di là di ogni moda effimera e di ogni autocontemplazione voyeuristica il corpo diviene così un mediatore simbolico tra gli uomini e la complessità di una realtà che fugge da ogni parte. E l'incisione sulla pelle diventa una sfida all'irreversibilità del tempo, un punto fermo nella propria storia.

Un gesto di chirurgia pittorica. Ma anche una forma di body art, una socializzazione estetica del sé. Trasformando il proprio corpo in un blog illustrato che trasmette informazioni non stop. Col rischio però che l'eccesso di segni prodotti ne azzeri il senso. Che è quel che avviene nell'informazione contemporanea. Se tutti sono tatuati il tatuaggio smette di significare, perde definizione per diventare decorazione, manierismo, modaiolismo.

È il paradosso del nostro tempo. Da una parte l'estrema smaterializzazione del digitale, dall'altra l'estrema materializzazione del corporale. È l'esito di un andirivieni millenario della parola significante. Che, uscita dal corpo come voce, fa ritorno al corpo come scrittura.

 

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