CALABRIA SAUDITA - COME SI FA A ESTIRPARE LA ‘NDRANGHETA SE L’AVVOCATO DI UN BOSS HA RAPPORTI DI AMICIZIA CON POLIZIOTTI, GIUDICI E PUBBLICI MINISTERI?

Giovanni Bianconi per ‘Il Corriere della Sera'

C'è un pezzo d'Italia, nel cuore della Calabria, dove l'avvocato difensore di una potente famiglia di 'ndrangheta era in ottimi rapporti di amicizia con i poliziotti che avrebbero dovuto indagare su quella stessa famiglia e invece, guarda caso, rivolgevano altrove le loro attenzioni.

E intratteneva, sempre quell'avvocato, assidue e cordiali frequentazioni con giudici e pubblici ministeri del tribunale dove venivano processati i propri assistiti; magistrati a loro volta imparentati con notabili a stretto contatto con la famiglia mafiosa di cui sopra, per esempio un commercialista e politico locale cognato del giudice e "compare d'anello" del boss.

E' il quadro fosco e inquietante emerso dall'inchiesta dei carabinieri del Ros e della Mobile di Catanzaro, coordinati dalla Procura antimafia del capoluogo calabrese, sfociata nell'arresto di Antonio Galati, legale di fiducia di alcuni esponenti del clan di 'ndrangheta che fa capo alla famiglia Mancuso e ora accusato di farne parte, e dei funzionari di polizia Maurizio Lento e Emanuele Rodonò, già capo e vicecapo della Squadra mobile di Vibo Valentia, inquisiti per concorso esterno in associazione mafiosa.

Secondo il giudice dell'indagine preliminare Abigail Mellace, che ha accolto le richieste del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e del sostituto Marisa Rossi, l'avvocato Galati è stato l'«anello di congiunzione» tra i Mancuso e quei poliziotti che, tra il 2009 e il 2011, avrebbero «svenduto il proprio ruolo, piegandolo agli interessi di una potente cosca mafiosa».

Nelle conversazioni intercettate dalle microspie del Ros, sono gli stessi protagonisti a definire l'intreccio di relazioni intessuto dal legale un «ingranaggio» che - nella ricostruzione degli inquirenti - garantiva protezione ai Mancuso attraverso l'opera di «infiltrazione negli apparati investigativi, giudiziari e di pubblica sicurezza».

In un colloquio registrato in macchina, Galati racconta quel che gli confidò un giudice: «Una sera dice "mangiamo tutti assieme... Tu chiama al dottore Rodonò e al dottore Lento"... E lì è iniziato un pochettino a entrare nell'ingranaggio».

Le toghe che intrattenevano «uno stabile e solido rapporto» con il legale dei Mancuso, indicate nell'ordine d'arresto, sono Gianpaolo Boninsegna, all'epoca pm della Procura antimafia di Catanzaro, e i giudici Giancarlo Bianchi, Cristina De Luca e Manuela Gallo, già in servizio al Tribunale di Vibo Valentia. Bianchi e Boninsegna, indagati per rivelazioni di segreto d'ufficio e altri reati, sono stati prosciolti dai loro colleghi di Salerno, mentre è aperta un'inchiesta disciplinare.

Gli incontri dell'avvocato con magistrati e poliziotti avvenivano spesso al ristorante Filippo's, noto locale nel centro di Vibo, gestito da Ivano Daffinà, fratello del commercialista ed ex vicesindaco Antonino Daffinà. Il cui «compare d'anello», stando a un'intercettazione, è il boss Pantaleone Mancuso detto "Luni", che in un colloquio registrato dice dei Daffinà: «E' da trent'anni che siamo di famiglia», e ricorda che «sono cognati con il presidente». Cioè il giudice Bianchi: sua moglie è sorella della moglie di Antonino Daffinà, nonché zia di un pm di Catanzaro a sua volta intercettato nella macchina di Galati.

Tra gli indizi raccolti a carico dell'ex capo della Squadra mobile Lento c'è un episodio legato all'avvelenamento di Santa Buccafusca, moglie di un altro Pantaleone Mancuso, detto «Scarpuni», nipote dello zio «Luni». Nel marzo 2011 la donna s'era presentata in una caserma dei carabinieri con il figlio più piccolo («ha impestato quell'anima pia», commenta l'avvocato Galati), annunciando di voler collaborare con la giustizia; fece dichiarazioni che poi rifiutò di sottoscrivere, tornò a casa e un mese più tardi morì dopo aver ingurgitato mezza bottiglia di acido solforico: un suicidio sul quale grava il sospetto dell'omicidio.

Dal marito si recò personalmente il dirigente della Mobile, accompagnato dall'avvocato Galati. Parlandone con «Luni» Mancuso, dopo avergli garantito che ai carabinieri la donna non aveva detto niente di rivelante, il legale spiega: «E' una forma di cortesia, no? Cioè uno arriva, gli fa le condoglianze...».

Mancuso: «Eh, sì... No, ma lui è una brava persona... l'importante che non...». E Galati, quasi a tranquillizzarlo: «No... ma non ne fanno indagini». Il boss avrebbe offerto volentieri un caffè al poliziotto, ma Lento aveva saputo che i carabinieri s'interessavano ai Mancuso, e temeva le microspie. «Mi ha detto: "Mi devo trovare qualche scusa... di qualche perquisizione... così con la scusa vado», riferisce l'avvocato.

Ai poliziotti la Procura contesta di aver omesso ogni accertamento sui Mancuso, nonostante siano «da sempre la cosca di 'ndrangheta più pericolosa della provincia». Concentrandosi, semmai, sui loro nemici. Una situazione, accusa il giudice, di cui l'avvocato Galati rivendica il merito davanti i propri clienti. L'ex vicecapo della Mobile Rodonò - intercettato nel luglio 2011 mentre commenta con Galati la «bellissima giornata» di mare appena trascorsa insieme nel villaggio turistico gestito dal marito della figlia del capoclan «Luni» Mancuso, con tanto di massaggio e «bottiglia» offerta dal titolare - alla vigilia della partenza da Vibo quasi si sfoga con il legale: «Mi voglio togliere lo sfizio di leggermi la storia di questa gente su cui io non ho potuto indagare!».

Tre mesi prima, in un'altra conversazione, lo stesso Galati si riferiva ai poliziotti e magistrati che - al contrario - volevano lavorare sui Mancuso esclamando: «Questi fanno... come diceva Maurizio l'altra volta... fantandrangheta!». Probabile che Maurizio fosse il dottor Lento, ora in carcere insieme all'avvocato Galati. Accusati di aver favorito o partecipato agli affari dei Mancuso; quella che loro chiamavano fantandrangheta.

 

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