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A CHI COSTA LA SEPARAZIONE? - IL MARITO RISCHIA LA POVERTÀ NEI PRIMI ANNI, ALLA LUNGA VA PEGGIO ALLA MOGLIE - ECCO UN CASO DI SCUOLA IN CUI NON GODE NESSUNO E CI PERDONO TUTTI 

Carlo Rimini* per “la Stampa”

*Ordinario di diritto privato nell' Università di Milano

 

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Nei giorni scorsi un lettore ha scritto alla rubrica di Maria Corbi una lettera ponendo una domanda semplice e diretta, quasi brutale: «Mi spiega perché dopo la separazione i mariti che non sono milionari devono ridursi a fare i barboni?» Ha ragione? Oppure sono le mogli ad essere lasciate sul lastrico dopo una vita di sacrifici? Dipende.

 

Nella famiglia tipo italiana con redditi medi o persino medio-alti, se ci sono figli e fino alla loro autosufficienza economica, è certamente penalizzato il marito. Prendiamo come modello una famiglia in cui il marito è un quadro aziendale e guadagna 3000 al mese.

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La moglie è impiegata e guadagna la metà. Hanno due figli. Come la maggior parte degli italiani, hanno acquistato la casa dove vivono e pagano un mutuo di 1000 al mese. Come ormai quasi tutti gli italiani, hanno scelto la separazione dei beni. La casa è quindi una proprietà esclusiva del marito (che è l'unico debitore nei confronti della banca). Tra spese condominiali e utenze spendono 500 al mese.

 

Che cosa succede se si separano? Il giudice prevede l' affidamento condiviso dei figli, ma - salve situazioni particolari - stabilisce che continuino a vivere con la mamma (che ancora nella nostra società è il genitore che a loro si è dedicato prevalentemente).

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La legge dice che il genitore con cui i figli vivono ha diritto all' assegnazione della casa familiare: ha cioè diritto a continuare a vivere nella casa anche se questa è dell'altro. Il giudice poi prevede un assegno per il mantenimento dei figli: la legge dice che l'assegno è stabilito «se necessario» ma sono rari i casi in cui non è riconosciuto.

 

Ecco quindi gli ingredienti che portano il marito dal benessere economico alla povertà: egli dovrà lasciare la casa e dovrà continuare a pagare il mutuo; dovrà pagare per il mantenimento dei due figli un assegno di almeno 500 al mese; dovrà pagare il canone di locazione della casa dove si trasferirà e le utenze domestiche (in una città è improbabile che riesca a spendere meno di 1000 al mese).

 

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Ogni mese ha quindi uscite per almeno 2500. Gli restano solo 500 al mese con cui far fronte alle spese quotidiane. Certamente alla moglie va molto meglio: ha la casa e deve pagare solo le spese condominiali e le utenze per un importo equivalente all'assegno che riceve; per le spese quotidiane sue e dei due figli può disporre del suo stipendio.

 

I conti effettivamente non tornano: ha ragione il nostro lettore. L'elemento distorsivo è la casa che è il bene a cui le famiglie italiane dedicano la maggior parte delle loro risorse. Il fatto che sia sempre assegnata al genitore con cui vivono i figli rende la soluzione spesso iniqua.

 

Ma se spostiamo avanti nel tempo il nostro sguardo la situazione si rovescia come una clessidra. Appena i figli diventano autosufficienti il coniuge che con loro viveva perde il diritto all'assegnazione della casa e il diritto all'assegno. In quel momento la legge si accanisce contro di lei.

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Dovrà lasciare la casa in cui ha sempre vissuto, di proprietà del marito, contando solo sul suo stipendio che è rimasto immutato negli anni poiché gli impegni per i figli la hanno costretta a sacrificare qualsiasi velleità di carriera. L'affermazione, ora fatta propria dalla Cassazione, per cui non ha diritto ad un assegno divorzile, essendo comunque autosufficiente nonostante le sue sostanze siano molto inferiori a quelle dell' ex marito, rende drammatica la sua situazione, come negli anni precedenti era drammatica la situazione dell' ex marito. È un sistema che scontenta tutti, distribuendo equamente fra i generi (il marito e la moglie) le proprie iniquità.

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