DELLE PALME E DELLE SALME – CALA IL SIPARIO SUL GRAND HOTEL DI PALERMO IN CUI CRISPI IMPARTÌ LEZIONI DI POLITICA, LA MAFIA OSPITÒ UNO STORICO SUMMIT E UN BARONE FU “CONDANNATO” ALL’ESILIO A VITA

1. SI ARRENDE ALLA CRISI IL "DELLE PALME" L'HOTEL DI PALERMO AMATO DAI VIP

Laura Anello per "La Stampa"

Chi crede agli spiriti può sbirciare dalla vetrata liberty che scintilla di luci e vederli tutti. Francesco Crispi, primo ministro nel 1885, seduto nella hall a impartire lezioni di politica agli ospiti; Richard Wagner, anziano e malato, che compone l'ultimo atto del suo «Parsifal» nella suite 124; lo scrittore francese Raymond Roussel accasciato tra i barbiturici nel luglio del 1933, stesso destino di morte (e di mistero) del filosofo uruguaiano Camilo Josè Enrique Rodò Pineyro, spirato nel 1917.

E anche il luogotenente americano Charles Poletti, che entra con i suoi uomini nella Palermo massacrata dalle bombe del 1943. E il fumo dei sigari dei boss siciliani e americani, Lucky Luciano in testa, che nella Sala Azzurra, tra il 10 e il 14 ottobre del 1957, si incontrano per il summit storico che stabilisce i nuovi equilibri di Cosa Nostra.

E il «milazzista» Ludovico Corrao che abbocca alla trappola degli emissari Dc nel 1960 e trascina in uno scandalo sulla compravendita di voti il governo regionale autonomista che rischiava di mettere in crisi i grandi capi dello Scudo crociato. E, ancora, il giornalista statunitense in odor di spionaggio Jack Begon che scompare qui per riapparire un mese dopo, muto come un pesce.

Svanisce il mondo del Grand Hotel et des Palmes, che si arrende alla crisi e al rischio di fallimento del gruppo Acqua Marcia, annunciando la chiusura e il licenziamento dei 37 dipendenti. Ma insieme con le proteste e con le lacrime dei lavoratori, sembra di sentire quelle delle migliaia di anime che sono passate da queste stanze e da queste suite, in un intreccio di amori, intrighi, accordi segreti, spionaggi, duelli, forse anche delitti: tante di quelle storie che la sceneggiatura più azzardata non potrebbe immaginare.

Una storia iniziata nel 1856, quando gli Ingham-Whitaker, famiglia inglese con grandi interessi nel vino e nei trasporti marittimi, fiore all'occhiello di quella borghesia imprenditoriale che per qualche decennio fece sognare a Palermo un futuro florido e cosmopolita, fanno costruire il palazzo tra due palme come loro dimora privata.

Non passa molto che l'entomologo e albergatore Enrico Ragusa lo acquista, inaugurandolo nel 1877 e poi, nel 1907, affidandone la ristrutturazione al grande architetto del liberty Ernesto Basile. Aveva chiuso i battenti l'Hotel de France in piazza Marina - che nei due secoli precedenti aveva ospitato regnanti, patrioti e pure il dottor Freud - e l'asse della città si era spostato verso gli ampi viali alberati post-risorgimentali. Da quel giorno, per un secolo e mezzo, l'Hotel delle Palme è stato Palermo. Quattro stelle, un lusso discreto, un'aria piacevolmente fuori moda.

Quasi non vuole credere alla chiusura Toti Librizzi, il barman che per una vita, dagli Anni Sessanta al 2002, ha servito i suoi mitici cocktail a clienti come Maria Callas, Renato Guttuso, Vittorio Gassman, Francis Ford Coppola, Fred Buscaglione, Burt Lancaster, Luchino Visconti.

E che da ciascuno in loro ha avuto in regalo un autografo, un disegno, una lettera. «Ho una collezione di quattromila cimeli - racconta - difficile mettere in ordine tanti incontri straordinari. Ho il disegno di Ray Charles, cieco, che ha tracciato sul foglio il profilo della sua mano. Ho l'ultimo di Gassman, che ho servito per decenni. L'ultima volta, era il 2000, non stava troppo bene, sarebbe morto qualche mese dopo. Mi ha disegnato una barca. Poi, quando se n'è andato, mi ha abbracciato e mi ha detto dolente: la barca se ne va...».

Ma qualcosa ha da raccontare anche Gigi Petyx, nel 1957 giovane reporter de «L'Ora», oggi memoria storica della fotografia a Palermo, che riuscì a intrufolarsi al summit di mafia. Fu scoperto, sbattuto al muro e poi chiuso in uno sgabuzzino. Oggi, forse, gli sarebbe finita peggio.


2. QUEL BARONE CHE PASSÃ’ TUTTA LA VITA NELLA SUITE PER ORDINE DELLA MAFIA

Francesco La Licata per "La Stampa"

Il Grand Hotel et des Palmes di Palermo, di cui è stata annunciata la chiusura, è stato per lunghissimi anni la location di un grande film, mai realizzato: la storia del barone Giuseppe Di Stefano, condannato da un tribunale invisibile, ma spietato, a un esilio dorato da scontare tra gli specchi, gli stucchi e i velluti barocchi del più famoso albergo della Sicilia.

Solo che la leggenda del barone ricco e poco felice non era frutto della fantasia popolare ma storia vera, fatta di carne viva e sangue. Giuseppe Di Stefano era uno degli uomini più facoltosi del Trapanese. Cresciuto a Castelvetrano in uno dei feudi della sua famiglia, un giorno nefasto provocò la morte di un ragazzo, anch'egli - a suo modo - baciato dal privilegio di appartenere a una famiglia «rispettata».

I racconti, non si sa quanto attendibili e trasmessi solo per via orale, parlano di un tragico incidente stradale, ma altri giurano che «qualcosa accadde a Castelvetrano, ma non quello che si dice». Incidente o altro, il morto ci fu e provocò pericolose reazioni.

Il papà della vittima si dice pretendesse lo stesso destino per il giovane omicida che, però, aveva difensori di un certo calibro. E allora la vicenda finì davanti al tribunale mafioso che sentenziò: «No alla pena capitale, ma se ne deve andare da Castelvetrano» per scontare una specie di carcere a vita, seppure comodo e dorato. Così il barone sbarcò a Palermo, alle Palme, e ne uscì raramente e solo previa autorizzazione.

La 204, due suites in una, diventò il luogo del proprio esilio e lì Di Stefano trascorse praticamente la sua seconda vita, molto simile alla prima ma senza libertà. Non abbandonò le abitudini antiche, il barone. Non cambiò gusti: il pesce fu sempre quello di Mazara del Vallo, il pane e l'olio di Castelvetrano, come la carne e la cacciagione.

Neanche ai piccoli capricci rinunciò. Il fattorino dell'albergo andava per mercati a cercare gli stuzzicadenti di piume d'oca, perché «non sia mai che il barone si mettesse il legno in bocca» spiegava uno dei portieri storici dell'albergo.

Eppure non era un isolato. In tanti lo ricordano al bar delle Palme in compagnia di belle signore, che fossero importanti soprano o amiche della buona società come Marta Marzotto che, con Guttuso, spessissimo «scendeva» alle Palme. Persino il buon Sciascia qualche volta si attardò al bar a sentire i discorsi del barone amante dei libri di storia e della buona musica, lirica e classica.

Ma quando stava nella propria intimità pretendeva una routine immutabile. Pranzo e cena serviti sempre dallo stesso cameriere e nelle rare assenze del suo preferito si informava sul sostituto col direttore: «Ma chistu conosce il mio verso?». Certo poteva pure accadere che qualche volta pretendesse i servigi di una cameriera privata, ma accadeva di rado.

Quando fu avanti negli anni dovette rassegnarsi alla sedia a rotelle, solo allora si isolò veramente: per pudore non gradiva di farsi vedere. Se ne stava nella sua stanza piena di piante bellissime ascoltando buona musica e leggendo i suoi libri di storia.

Non si conoscono parenti del barone Di Stefano, chi ha frequentato l'albergo ricorda la presenza discreta dei due infermieri che si davano il cambio. Così è arrivato ai 92 anni, fino alla Pasqua del 1998, quando se n'è andato nel sonno, prima di poter gustare il capretto e la cassata, menù fisso della Festa, in Sicilia.

Contrariamente ad ogni prassi alberghiera, che tende a nascondere i lutti, la bara di Di Stefano è uscita dalla porta principale, proprio sotto l'unico «balcone lungo» del prospetto stile Art Nouveau, da dove - nelle calde giornate estive - il barone osservava il passeggio pomeridiano. A salutarlo, l'intero personale e Totino Librizzi, istituzione delle Palme, il barman che gli serviva l'aperitivo quando si intratteneva con Carla Fracci, con qualche politico o col tenore Giuseppe Di Stefano, suo omonimo e buon amico.

 

 

hotel delle palme HOTEL DELLE PALME PALERMO

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